I mediatori tra soggetto e oggetto culturale
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I mediatori didattici secondo Bruner1 "come forme di rappresentazione tipiche di fasi successive dello sviluppo" (Damiano, 2013, 172)2. Per Bruner i mediatori sono: attivi, iconici e simbolici.
Damiano riprende Bruner, ma reintepreta il concetto stesso di mediatore che non è solo rappresentazione del concetto, ma un ponte tra soggetto e concetto, un oggetto transizionale tra soggetto e sapere.
Alle tre categorie di Bruner aggiunge i mediatori analogici. Vediamo ora come Damiano definisce le quattro categorie.
Mediatori attivi
"Consistono di attività che si compiono attraverso l’esperienza diretta, intesa come azioni fisico-percettive. Per questo motivo sono collocate in prossimità del polo della “realtà” e pertanto – presentandoli come esperienza, e ancora di più, “diretta” – occorre rispondere alla contraddizione circa la loro effettiva natura di mediatori. Effettivamente si tratta di mediatori di soglia, diversi rispetto a tutti gli altri tipi; e tuttavia vanno compresi tra i mediatori perché comunque vengono promossi all’interno del contesto scolastico, non sono casuali e vengono programmati secondo un calcolo didattico: sono selezionati a ragione del loro potenziale formativo, all’occorrenza semplificati o arricchiti rispetto alla realtà corrente, e soprattutto garantiti nel loro risultato, sia nel senso del successo che dell’insuccesso, oltre che, ovviamente, assicurati rispetto ai rischi di danni che l’azione diretta può sempre provocare. Sono tutti “artifici”, però, che – secondo l’ispirazione attivista dalla quale traggono origine e giustificazione – devono essere opportunamente celati alla vista, in modo da ottenere che gli alunni si considerino alle prese con autentiche esperienze dirette, senza rete. Per questo motivo comportano difficoltà impegnative alla regia dell’insegnante per quel che concerne il quadro spazio-temporale
della loro attivazione: e se per quanto concerne il luogo – che in via privilegiata deve essere esterno all’ambiente scolastico – la disponibilità di spazi aperti, sicuri e mirati non è ostacolo insormontabile, mentre il tempo a disposizione – che per essere significativo non può non essere di lunga durata – può entrare in contrasto insanabile con i tempi assegnati dall’orario scolastico.
Come si può notare, siamo dinanzi a mediatori di particolare impegno didattico, con la conseguenza che il ricorso a essi possa essere considerato eccezionale, quando non addirittura proibitivo e quindi escluso. Sarebbe tuttavia una rinuncia grave, perché l’esperienza diretta – pur “guidata” nella sua veracità – è un mediatore di straordinaria efficacia: per la motivazione, quindi per l’energia che è in grado di mobilitare; per l’integralità – totalmente incorporata – dell’occasione di apprendimento; per la percezione di naturalezza e di spontaneità di retroazioni provenienti direttamente dalle cose in situazione. Ne discende che i mediatori attivi – a ragione del carico che impone la loro stessa qualità – non potendo essere frequenti, devono essere perlomeno emblematici: collocati strategicamente lungo il calendario didattico e soprattutto prescelti per la loro elevata trasferibilità" (ivi, 172)
"Le principali implicazioni, ai fini didattici, sono le seguenti:
1) l’esperienza diretta è un “mediatore”, che si pone tra soggetto e ambiente, per attivare il processo di astrazione e coscientizzazione che può favorire l’apprendimento;
2) per essere efficace come “mediatore”, l’esperienza diretta ha bisogno di far ricorso ad altri “mediatori” che sono più adatti ad attivare l’astrazione (vedremo quali, ma già anticipiamo l’importanza di quelli simbolici, a cominciare dalla verbalizzazione); viceversa, l’azione si ritrova dentro tutti gli altri tipi di mediatori, una diffusività che discende, oltre che dalla sua funzione strumentale e sussidiaria,
dal fatto, già richiamato, della strutturazione logica della conoscenza che trova la sua matrice nella coordinazione delle azioni (v. l’astrazione riflettente);
3) la peculiarità dell’esperienza diretta, in quanto mediatore didattico, è la procedura riuscire e comprendere, che comporta dare la precedenza al “fare” rispetto al “sapere” (o al pensare): ovvero un approccio che viene troppo spesso negato dall’insegnamento, il quale venera il detto che recita “prima di fare bisogna sapere”;
4) anche sul piano della conduzione dell’insegnamento, i mediatori attivi richiedono strategie tipiche del tirocinio pratico: l’osservazione di azioni esemplari, l’imitazione, la cooperazione, la specularità (= “ti faccio vedere come fai tu”). Funzioni peculiari vanno assegnate alla verbalizzazione: codifica dell’osservazione, accompagnamento ed esplicitazione dell’imitazione, consolidamento dei i singoli passaggi dell’esecuzione nella memoria operativa" (ivi, 176).
Mediatori iconici
"Procedendo lungo l’asse inclinato della metaforizzazione troviamo il secondo tipo di mediatori didattici, che si caratterizzano per l’uso della figurazione. Sono sicuramente tra i mediatori più in voga, oggi ancora di più a ragione dell’invadenza delle nuove tecnologie: ma soffrono di semplicismo – il senso comune afferma che analogici la loro validità dipenda dal fatto che siano attraenti – e facilismo – si pensa che siano immediatamente comprensibili – e sono afflitte da parassitismo estetico, che porta ad indulgere alla ricchezza decorativa, che invece non di rado opera da ostacolo all’apprendimento. Occorre tener presente, invece, che siamo dinanzi ad un vero “linguaggio”, che ricostruisce la realtà mediante un codice sofisticato, e offre rappresentazioni che – nonostante le apparenti similitudini con le cose – mantengono una vaghezza ineludibile e richiedono pertanto un apposito tirocinio, anche solo
per “leggerlo”, oltre che per “scriverlo”. La virtù didattica delle immagini non risiede che in minima parte nella loro “verità” – ovvero nella corrispondenza al reale – bensì nella loro capacità di far vedere lo “schema” della realtà, quello che prova a spiegarla costruendone un modello, rendendolo simile a una cosa" (ivi, 177).
"La naturalità con la quale ci rivolgiamo alle immagini – evidente quando diciamo, dinanzi a un’immagine, che “è” una pipa – non deve, soprattutto in didattica – farci dimenticare che “non è” tale,
bensì solo una sua rappresentazione, peraltro dipendente dal soggetto che la presenta e dai mezzi che adopera" (ivi, 178).
"I requisiti didattici dei mediatori iconici così intesi vanno segnalati tra i seguenti:
A) L’oggettivazione, ovvero la possibilità di rendere visibile ciò di cui si tratta, in un formato che ne richiama l’immagine in qualche modo, più o meno realistico. Una condizione di evidenza che costituisce un vantaggio notevole ai fini dell’apprendimento. La “cosa” da studiare diventa una “cosa” fisica simile, una concrezione grafica realizzata attraverso un intervento che per rappresentarla si serve del colore – in contrasto con la superficie della rappresentazione –, della misura – proporzionata all’originale mediante una scala – e della prospettiva – adottando un punto di vista privilegiato per renderla “al naturale”. Già questa prima operazione consente una messa a fuoco dell’oggetto – facendolo emergere rispetto allo sfondo in cui si colloca – lo rende accessibile in assenza – quando occorre, senza bisogno di andarlo a cercare nel suo contesto (come sarebbe necessario quando si adotta un mediatore attivo) – e pertanto lo rende manipolabile, ovvero lo mette a disposizione per l’indagine sulle sue caratteristiche. Presa nel suo insieme si tratta di una decontestualizzazione mirata a liberare la “cosa” dal viluppo degli aspetti che possono confonderne una adeguata intelligibilità. Ma è, per lo stesso motivo, un’operazione di distorsione che isola la “cosa” dagli elementi con le quali fa tutt’uno, a rischio di perdere la comprensione dell’insieme del quale è parte. Possibilità e limiti della mediazione iconica che un insegnamento avveduto può compensare e bilanciare, ma anche ulteriormente forzare:
con figurazioni che esagerano “irrealisticamente” certi aspetti della “cosa” per sottolinearne l’importanza (sminuendo d’altrettanto gli altri aspetti, che pur in realtà contano), oppure scegliendo di illustrarlo secondo prospettive che non sono praticabili con l’osservazione diretta, fino addirittura a rappresentare una visione dall’interno, sezionando l’oggetto secondo tagli convenienti, evitando di
doverlo, faticosamente, smontare nei suoi pezzi (si pensi al disegno “esploso” di meccanismi complessi come un motore d’automobile o d’aereo). Tutte distorsioni iper-realistiche, giustificate dalla convenienza didattica, che le tecnologie visuali tendono oggi a moltiplicare, fino ad eccedenze spettacolari che ottengono il risultato opposto, quello di ostacolare l’insegnamento.
Tra le implicazioni a portata didattica della “oggettivazione” vanno segnalate:
1) il controllo della corrispondenza tra la rappresentazione mentale e la rappresentazione iconica cui si ricorre per esplicitarla, esercizio per tentativi ed errori che consente di retroagire sui concetti e di contribuire a chiarirne la definizione;
2) il distanziamento del soggetto rispetto alle sue rappresentazioni, con la possibilità di osservarle “come se” non fossero le proprie, confrontarle con quelle di altri e prendere coscienza del proprio punto di vista. Opportunità tutt’altro che irrilevanti ai fini dell’insegnamento.
B) La densità, ovvero la capacità di comprendere un elevato numero di informazioni in rappresentazioni rapide e concise. Il riferimento va alle quantificazioni visuali consentite dagli istogrammi di vario formato, che consentono non solo di illustrare dimensioni in termini aritmetici ma anche di effettuare confronti ed elaborazioni statistiche. I numeri non esistono in natura, e poterli vedere assegnando loro uno spazio fisico corrispondente facilita l’intuizione di significati che travalicano la semplice quantificazione. Ma i mediatori iconici ottengono anche altro, proprio attraverso la traduzione delle conoscenze, visualizzandole in termini spaziali: si pensi agli organizzatori cognitivi quali i diagrammi di Venn, le mappe, le reti, gli organigrammi, le linee del tempo, i diagrammi di flusso, le reti di Petri, i cronogrammi, le tabelle a più entrate, le mappe e così via.
C) La coordinazione: i mediatori iconici per essere compresi al pieno della loro portata vanno confrontati con i risultati che si possono ottenere con il linguaggio concorrente – quello verbale, orale e scritto – che alimenta i mediatori simbolici dei quali ci occuperemo più avanti. Il linguaggio verbale, che dispone i suoi enunciati consecutivamente – in una sequenza “prima e dopo” (procedendo da sinistra a destra, in Occidente) – non è in grado di rappresentare la simultaneità (e per porvi rimedio si serve di connettivi logici e della sintassi, della frase e del periodo: comunque e inevitabilmente, trascritti in una serie consecutiva di simboli astratti come lettere e parole). Invece, il linguaggio grafico utilizza lo spazio – che si può cogliere con un “colpo d’occhio” – per mostrare nitidamente le interrelazioni tra gli elementi della rappresentazione. Insiemi, contesti, sistemi più o meno complessi trovano in quelli iconici i mediatori d’eccellenza. Questi non solo sono in grado di esprimere relazioni “in genere”, ma anche relazioni qualificate, come: la dominanza, disponendo gli elementi così connotati al centro (“centrali”), alla base (“fondamentali”), al vertice (“gerarchici”), oppure, all’opposto, ai lati o intorno (“periferici”). Dove la metrica dell’organizzazione sociale – l’autorità, la dipendenza, la parità (anche in assenza di un centro ordinatore)…, vengono trasposte in chiave di rilevanza all’interno della spiegazione di eventi e di fenomeni (anche) d’altra natura. Per apprezzare il potenziale comunicativo dei mediatori iconici, a questo riguardo, basterà chiedersi quali siano gli eventi e i fenomeni – sociali o naturali – che si costituiscono di rapporti solo consecutivi, e non, invece, di una trama di relazioni interagenti a flusso differenziato.
D) L’animazione, non solo per il realismo che consente alla rappresentazione di azioni e di processi che offrono i filmati, ma anche (o soprattutto) per la possibilità di “forzature” didattiche – accelerazioni e rallentamenti di fenomeni – troppo lenti oppure troppo rapidi – per essere percepibili mediante l’osservazione diretta (come lo sviluppo vegetale oppure il fulmine). Ma l’animazione può servire a rendere intelligibili relazioni di causa/effetto, anteazioni e retroazioni continue e intermittenti, correlazioni multiple, dando loro forma di movimenti “fisici” (e pertanto da considerare supporti solo provvisori all’intuizione).
Per concludere, possiamo dedurre dalle indicazioni precedenti alcune implicazioni di rilevanza didattica:
1) i mediatori iconici, per la loro capacità di rendere visibili le conoscenze oggetto di insegnamento, si prestano molto validamente ad essere utilizzati per portare alla luce le pre-conoscenze degli alunni. Le quali, com’è noto, sono la condizione per rendere congruenti le azioni di insegnamento;
2) per le medesime ragioni, quelli iconici vanno riconosciuti come particolarmente validi ai fini delle pratiche didattiche di valutazione continua e finale degli apprendimenti;
3) il linguaggio iconico – nonostante le apparenze “facili” – consiste in una codificazione che non è immediata, bensì richiede interventi appositi di natura didattica per essere appreso: per essere decodificato come linguaggio da leggere, ma ancora di più come linguaggio da imparare a scrivere;
4) i mediatori iconici possono esprimere il loro straordinario potenziale didattico a condizione di vigilare sulle distorsioni immanenti che comportano a ragione del canale sensoriale – la percezione – sul quale si basano, e quindi necessitano di azioni correttive e compensative. Tali limiti possono essere convertiti in vantaggi associando loro altri mediatori, quali gli attivi – già esaminati – e soprattutto
i mediatori simbolici.
Mediatori analogici
I mediatori analogici appartengon o a due categorie: "c’è un’analogia che punta alla rappresentazione, ovvero all’intento di ri-presentare la realtà cui ci si riferisce, per come è o si pensa che sia; un’altra, invece, che mira alla simulazione, ovvero a costruire un’altra realtà – immaginata e verosimile – vivendola e/o facendola vivere ad altri, “come se” fosse vera, eppur mantenendo la consapevolezza che tale non è. L’area funzionale della simulazione ha come riferimento centrale il gioco" (ivi, 183).
Su questo sfondo di dissonanze sul valore educativo del gioco tra scuola ed extra-scuola e tra contesti scolastici di grado diverso, si rende più che opportuno segnalare l’enorme potenziale didattico che i mediatori analogici, e in particolare i giochi di simulazione, possono offrire al lavoro dell’insegnante:
A) innanzitutto la capacità di sollecitare motivazioni e di mobilitare il capitale di conoscenze e competenze disponibile presso il soggetto in apprendimento. L’impulso del gioco ad attivare le risorse energetiche è incomparabilmente superiore a qualsiasi altro tipo di stimolo;
B) l’integralità dell’esperienza che è in grado di promuovere, tale da tenere salde insieme le dimensioni prassiche, sensoriali, emotive e cognitive dell’alunno, affine a quello accessibile mediante l’esperienza diretta; ma siccome l’ambito di esperienza generato dal gioco è quello dell’immaginazione, si dà il vantaggio di poter ridimensionare, fino a neutralizzarla, l’importanza dell’errore, che può risultare
– nella realtà – non solo rischioso per le conseguenze negative, ma anche inibente;
C) l’integralità dell’apprendimento consentito dal gioco riguarda, insieme a forme esplicite e riflesse, anche occasioni di apprendimento latente, che si depositano presso il soggetto in modo inconsapevole, per affiorare quando possono servire. L’intreccio dei molteplici aspetti dell’esperienza ludica – come per l’esperienza diretta – ottiene che la componente implicita degli apprendimenti sia piuttosto ampio, anche superiore rispetto a quelli espliciti. Siamo dinanzi a una sorta di apprendimento nascosto che si deposita presso il soggetto in termini di percezioni e di immagini mentali e concorrono a costituire un capitale inconsapevole di conoscenze tacite, che possono essere espresse e condivise solo con difficoltà. Si tratta di conoscenze “pratiche”, di tipo procedurale, che sono fondamentali per un valido adattamento alle contingenze fisiche dell’ambiente, e che trovano la loro piena importanza nell’attività professionale, nelle routines e negli automatismi necessari al lavoro e, in particolare, per l’acquisizione delle
competenze;
D) il gioco amplia considerevolmente gli spazi della possibilità, selezionando contesti dedicati appositamente alle attività di insegnamento, con un grado di libertà vincolato solo dall’immaginazione, e che si sono ampliati a dismisura con l’utilizzo della “realtà virtuale”. Il controllo delle variabili, nei giochi di simulazione, viene deciso mediante le consegne ai partecipanti: che possono essere
variate – durante il gioco stesso – aggiungendone o sottraendole, come in un esperimento;
E) quando il gioco consiste nella rappresentazione di un evento – poniamo u n episodio storico, tipo il Congresso di Vienna – il grado di comprensione dei punti di vista dei personaggi, interessi ed intenzioni, può contare sul supporto dell’immedesimazione nel ruolo che si interpreta e della intera gamma dei sentimenti suscitati dai i ruoli concorrenti e antagonisti. Opportunità che può essere fatta valere anche per gli alunni che partecipano come osservatori della messa in scena e quindi sollecitati per empatia;
F) sempre nel caso di simulazione di eventi umani considerati nel punto precedente, il conduttore può intervenire a cambiare lo scenario, inserendo informazioni mirate, o addirittura chiedendo di ribaltare lo scenario iniziale con ipotesi controfattuali – verso il basso, sottraendo elementi del contesto, o verso l’alto, aggiungendone – per mettere alla prova la capacità degli attori di coglierne le inferenze e comportarsi di conseguenza;
G) il caso opposto è quello del role play, in cui il canovaccio è aperto e ridotto solo allo stimolo iniziale, e tocca ai partecipanti decidere – in base all’interazione con gli altri, magari con il “candidato di pietra”, l’assente rappresentato dalla sedia vuota – come comportarsi e quale profilo assegnare alla propria parte. Nella dinamica che si viene di volta in volta a manifestare, vengono ad attivarsi la capacità di costruirsi uno spazio di intervento gratificante, esercitare la capacità di argomentare, offrire e ottenere il consenso alle proprie opinioni, esprimere solidarietà, appoggio, rispettare o condannare le divergenze, contenere i conflitti eventualmente insorgenti o provocarli a ragion veduta, proporre, denunciare e rifiutare compromessi, dedicarsi al problem solving, dichiarare valori, suggerire criteri e regole di comportamento, prendere decisioni, assumere la leadership o cooperare come gregario… Tutte dinamiche di gruppo che rappresentano un tirocinio di apprendistato sociale – che è fatto di gestualità, pratiche linguisticoconversazionali, procedure discorsive, strategie cognitive… – solitamente affidato alla casualità dell’esperienza diretta e che invece può essere condensato, ordinato e finalizzato educativamente mediante specifiche attività di role-playing. Un tipo di formazione che “ritorna” sul soggetto stesso e gli permette di riconoscersi e di progettare la propria identità personale;
H) il role play, a ragione della pregnanza delle caratteristiche su esposte, si presta ottimamente al potenziamento della competenza etica: quindi all’educazione socio-civico-politica, all’educazione multiculturale e così via, tutti insegnamenti che per essere formativi devono essere praticati, e non possono essere ridotti solo agli aspetti conoscitivi: e che pertanto solitamente a scuola vengono trascurati oppure realizzati solo in termini intellettualistici.
A fronte di questo straordinario potenziale didattico, bisogna richiamare due generi di problemi. Il primo riguarda i limiti, già anticipati, dei mediatori analogici:
1) la semplificazione dei contesti di realtà rappresentati, che può giungere fino alla banalizzazione;
2) connessa a questa, va messa in conto anche la neutralizzazione degli errori, che può indurre ad atteggiamenti di sottovalutazione e di indifferenza rispetto ai rischi effettuali in situazione;
3) la distorsione della rappresentazione ludica rispetto ai contesti reali, fino a offrirne una versione solo divertente e irrealistica, quando non caricaturale (ivi, 189).
Mediatori simbolici
"Li abbiamo posti al termine del processo di metaforizzazione perché ne costituisce il coronamento, non solo perché alla massima distanza dalla realtà ma anche perché – rispetto alla realtà – i più convenzionali e pertanto più “liberi” da riferimenti fisico-sensoriali. Il pensiero ne costituisce lo scheletro, il linguaggio verbale – orale e soprattutto scritto – insieme a quelli massimamente simbolici dell’aritmetica, dell’algebra e della logica, ne rappresenta lo strumento di espressione e di comunicazione" (ivi, 193).
"Vediamo di coglierne, laicamente, i pregi – che ci sono – e i limiti, che non mancano.
A) Cominciamo dall’efficienza: non c’è altra routine didattica in grado di mettere a disposizione dell’ascoltatore un maggior numero di informazioni nella minore quantità di tempo. È la sintesi il motivo principale per la preferenza che i docenti accordano alla lezione (almeno a cominciare da quando gli alunni appaiono in grado di ascoltare e capire le parole di un adulto). Ed è per questa ragione che il ricorso alla lezione diventa più intensivo quando i programmi scolastici si fanno – come succede, in Italia, dagli anni ’70 in avanti – più ponderosi per quantità di nozioni prescritte: secondo l’equivalenza più carico = meno tempo = più lezioni… Anche quando si fa notare – com’è vero – che la lezione presenta il difetto corrispondente – doppio – della dispersione – una enorme quantità di informazione non viene né raccolta né ritenuta – e della distorsione – le conoscenze offerte vengono deformate su misura del singolo ascoltatore – la misura delle conoscenze messe a disposizione rimane comunque abbondante, in relazione ad altri approcci, per quanto più profondi, d’altrettanto più lenti.
B) Gli aspetti positivi della lezione riguardano anche la qualità del mediatore utilizzato, la parola: ovvero la sua capacità di attivare un mercato linguistico, dove i significati si scambiano e si condividono secondo regole di “convenienza linguistica”: si apprezzano per l’efficacia rappresentativa, il rigore della distinzione, il potenziale di rimandi e coordinamenti nella mappa cognitiva dei soggetti in relazione.
Quando la parola è concetto – gravida di pensiero, tema che riprenderemo più avanti – essa si rivela l’utensile umano per eccellenza: potente, perché copre un territorio incommensurabilmente vasto di esperienze eppure leggero, dal momento che costa poco, economico quanto l’emissione di un suono; è sicuro, per quanto è distante dai rischi dell’esperienza diretta, ma anche flessibile, perché consente di ordinare gli oggetti d’esperienza come i pensieri secondo criteri molteplici e diversificati, collega i simili, li gerarchizza – mediante partinomie e tassonomie – oppone i diversi secondo progressione di differenze; è preciso, perché è in grado più di qualsiasi altro mediatore di delimitare i confini tra significati, a prova di imprecisioni e approssimazioni terminologiche, ma è anche sfumato, in grado di dire le ambiguità e la complessità dell’esperienza; è iper-realistico, capace di dire quello che si percepisce ma anche quello che non c’è, non c’è ancora o è già stato, oppure è solo desiderabile, fattibile come un progetto o irrealizzabile come un’utopia, grandioso e terrificante per quanto può consentirlo la fantasia; è volatile, perché non lascia tracce (se non è scritta né tecnologicamente fissata) ma persistente, attraverso un deposito di facile consultazione e poco ingombrante come la memoria semantica.
C) I limiti già indicati della dispersione e della distorsione, quando si tratta di insegnamento, sono da considerare particolarmente gravi, alimentando da sempre l’accusa di verbalismo – parole senza senso – e di psittacismo – parole ripetute “pappagallescamente”, senza consapevolezza di significato. Denunce fondate, documentate da Piaget nei lavori degli anni ’20, quando interrogava verbalmente gli alunni nel laboratorio annesso alla scuola parigina di Rue Grangesaux-Belles e ne raccoglieva – col primo approccio al “metodo clinico” – le risposte verbali. Un repertorio almeno stravagante, che –esemplificato e ritrascritto come forma umoristica (o sarcastica) – ha dato luogo alla letteratura sulle castronerie scolastiche che non poco ha contribuito a marchiare negativamente l’immagine pubblica degli insegnanti, soprattutto del grado primario.
In definitiva, il punto critico del linguaggio verbale è il rapporto col pensiero: linguaggio iniziatico, con pensiero rivolto solo agli adepti, oppure linguaggio fine a se stesso fino alla vacuità, flatus vocis senza pensiero. Ma anche linguaggiopensiero, come i concetti (ivi, 194).
1. J.S. Bruner, Verso una teoria dell’istruzione, Armando, Roma 1967
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