Appendice. La storia dei modelli dell'Instructional design
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La ricerca su come progettare in campo educativo nasce negli Stati Uniti del secondo dopoguerra per rispondere ad alcune esigenze che emergevano in quel periodo. Benché già Dewey, come abbiamo ricordato nei capitoli precedenti, sottolineasse l’esigenza di una progettazione organica, solo negli anni Sessanta e Settanta si sente l’esigenza di analizzare e proceduralizzare i processi della progettazione. Nasce ADDIE, descritto in letteratura come il capostipite di tutti i modelli per la progettazione e proposto per affrontare situazioni “limite”, che non riguardavano le attività e le situazioni ordinarie del lavoro del docente. I primi modelli sulla progettazione sono stati costruiti per corsi che dovevano essere ripetuti più volte nel tempo con le stesse caratteristiche ed erogati a un numero molto alto di studenti. Tale esigenza determinava la formalizzazione delle procedure. La situazione era presente nella formazione dei soldati degli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta. Il “controllo del mondo” e le situazioni critiche, la guerra di Corea prima e quella del Vietnam poi, richiedevano l’addestramento continuo di un gran numero di soldati. Si voleva che la formazione permettesse l’acquisizione delle stesse performance, indipendentemente dalla competenza dei formatori. Già durante la seconda guerra mondiale l’esercito americano aveva individuato linee guida per la formazione e tali linee hanno nel tempo preso una forma più definita grazie anche all’impegno di centri universitari. Negli anni successivi alla fine del secondo conflitto si è cercato di comprendere se tali linee guida potessero essere utilizzate per definire il processo della progettazione didattica anche fuori dal contesto militare.
Nel 1975 il
Center for Educational Technology della Florida University presenta ADDIE. Nel
‘74 Gagné, Briggs e Wager pubblicano “Principles of Instructional Design”
e Dick, Carey e Carey nel ’78 “The
Systematic Design of Instruction”. Nei successivi trenta anni sono stati
proposti centinaia di modelli e, molti di essi, non erano più destinati alle
situazioni “limite”, ma erano rivolti ai docenti che ogni giorno lavoravano
nelle scuole e nelle università. Alla fine del 1900 Gustavson aveva raccolto
più di cento modelli (2002). Necessitava una visione di insieme. Nel 1981
Gustavson pubblica la prima review di modelli della progettazione, propone una
tassonomia e pubblica “Survey of Instructional Development Models”. Edizioni
successive dell’opera appaiono nel 1991, nel 1997, nel 2002 e, la più recente,
nel 2015, curata da Branch e Dousay in cui il termine Devellopment è sostituito
da Design, anche se il testo conserva la stessa struttura dei precedenti. Contemporaneamente Reighelut
pubblica nel 1983 “Instructional-design theories and models: An overview of
their current status”. Anche in questo caso vi è una seconda
edizione nel 1999, una terza nel 2009 e una quarta nel 2016. Si noti come alcune date si ripetano e come gli
anni intorno al 2000 vedano sia in un caso come nell’altro delle pubblicazioni.
Entrambi i volumi sottolineano la presenza di un cambio di paradigma nel 2000,
dall’era dell’industrializzazione all’era dell’informazione, della complessità,
di un ruolo più attivo degli studenti. Era seguita nella prima decade del nuovo
millennio una focalizzazione sulla qualità e sulla evidenza. Ma già nella
seconda decade del XXI secolo si assiste a una seconda svolta. In effetti non
solo escono le nuove edizioni dei due volumi, Survey of Instructional Design
Models” nel 2015 e “Instructional-design theories and models: An
overview of their current status” nel 2016, ma nel 2014 AERA propone un
salto nella ricerca, sia a livello metodologico, che di tematiche. Sono
riportati al centro l’attenzione sulle problematiche dell’educazione e una
maggiore attenzione sulle tematiche sociali e culturali, senza perdere di vista
una rigorosità capace di supportare con la ricerca le indicazioni da fornire ai
pratici e ai decisori politici.
I lavori di Gustavson nelle varie edizioni propongono la
stessa tassonomia e organizzano i modelli in tre ampi campi: classroom, product
e system. La prima categoria è rivolta ai docenti che progettano quasi sempre
singolarmente e debbono progettare con poche risorse e in tempi limitati, la
seconda categoria riguarda team di progetto, composti da project manager,
esperti di didattica, di contenuti e di tecnologie che sviluppano prodotti per
i quali è prevista un’ampia distribuzione, mentre, infine, la terza categoria
riguarda modelli utili alla progettazione di corsi e curricoli e richiedono
risorse, tempi e team di esperti di sistema (Gustavson, 2002, 12-13). La nostra
analisi si focalizzerà sulla prima categoria ed è rivolta a professionisti
dell’educazione che insegnano in classe con vincoli esterni relativi al
programma di massima, alle ore a disposizione, al numero degli studenti. Il ruolo
del docente “è decidere lo specifico contenuto, pianificare le strategie,
individuare i dispostivi mediali, animare la lezione e valutare gli studenti”
(ivi, 18).
La natura dinamica
dell'istruzione in classe, spesso accompagnata da un carico di insegnamento
pesante, offre poco tempo per lo sviluppo completo di materiali didattici.
Inoltre, le risorse per lo sviluppo di solito sono limitate. Di conseguenza,
gli insegnanti devono identificare le risorse esistenti per l'adattamento alle
condizioni, piuttosto che impegnarsi nello sviluppo originale. Inoltre, molti
insegnanti elementari e secondari insegnano la maggior parte degli argomenti
solo una volta all'anno e quindi si preoccupano meno per la rigorosa
valutazione e revisione formativa associata a corsi e laboratori che vengono invece
offerti simili più volte (Branch e Dousay, 2015, 41).
Gustavson e di Reigeluth definiscono il campo di ricerca
relativo alla progettazione. Il primo tema dibattuto nel settore è relativo
alla denominazione. Progettazione in inglese si traduce Design anche se i
significati di progettazione e di design non si sovrappongono totalmente. Lo
studio dei modelli di progettazione è presente sia nel: “Instructional
Technology Literature”, sia nel “Educational Curricular Literature”. In tali
contributi si parla di Instructional Development (ID) e più recentemente di Instructional
Design (ID). AECT, l’associazione statunitense sulle tecnologie didattiche, nel
1977 definisce l’Instructional Development
un approccio
sistematico per la progettazione, produzione, valutazione e utilizzo di un
completo sistema di istruzione che include tutti gli appropriati componenti e
il modello di gestione per usarli; lo sviluppo didattico implica più cose dello
sviluppo del prodotto didattico, che tratta solo prodotti isolati, e più cose
dell’instructional design che è solo una fase dell’instructional development”
(ivi, 172)
Seels e Richey (1994) preferiscono parlare di Instructional
System Design, invece di Instructional Development, che definiscono come “una
procedura organica che include gli step necessari ad analizzare, progettare,
sviluppare, implementare e valutare processi di istruzione” (ivi, 94).
I modelli affrontano due tematiche fondamentali: (1) i passaggi che effettua il progettista, ovvero la
successione delle operazioni che svolge per arrivare all’artefatto progettuale;
(2) le caratteristiche che dovrebbe avere l’artefatto per essere performante. Il
termine perfomante va chiarito in quanto alla sua base vi sono delle concezioni
già affrontate nei capitoli precedenti: può un modello garantire la qualità
dell’apprendimento? Che legame tra apprendimento e insegnamento? Quale dovrebbe
essere la finalità di un modello?
Come si cercherà di approfondire le risposte alle precedenti
domande non solo dipendono da un approccio teorico, ma si sono modificate nel
tempo e con esse i modelli di ID.
1 Un classico da cui comunque partire: ADDIE
Il capostipite di tutti i progetti della formazione, come
detto, è ADDIE. ADDIE è un acronimo: Analysis, Design, Development, Implementation
ed Evaluation. Il modello è tanto semplice quanto ovvio e descrive le
principali operazioni che il progettista effettua nel suo lavoro. Nella fase
iniziale (Analysis) analizza la situazione, il contesto, i vincoli e prende in
esame le finalità e gli obiettivi. In base all’analisi delinea i tratti principali
del percorso e definisce gli indicatori (Design). Poi passa alla fase
operativa: sviluppa i dispositivi (Develepment) e, successivamente, assembla le
parti, forma i formatori e predispone tutto ciò che serve per attivare e
gestire il corso (Implementation). Vi è poi una fase di valutazione di sistema
per comprendere se il processo cammina come desiderato e per individuare
possibili interventi correttivi (Evaluation). Il percorso precedente è tanto
semplice quanto ovvio, ovvero presenta un percorso che esplicita quanto il buon
senso e le pratiche quotidiane ci suggeriscono. Difficilmente potremmo
criticarlo.
Il dibattito sulla progettazione, più che criticare ADDIE, mette
a fuoco alcuni elementi e passaggi che
ora cercheremo di delineare. Se i processi principali sono quelli descritti da ADDIE,
le differenza tra i vari modelli sono sulle relazioni e sulla successione dei
vari step e su come i contesti impattano su relazioni, successione e lavoro del
docente. In particolare:
1.
Come l’aumento della complessità del contesto
impatta sulla struttura del modello (complessità).
2.
Come varia la funzione del modello sulla
progettazione (prescrittività).
3.
Come si modifica la relazione tra i blocchi (ricorsività).
4.
Quali sono gli elementi da cui partire per la
progettazione (certezza delle condizioni inziali).
5.
Come una diversa prospettiva della
professionalità del progettista impatta sulla progettazione ovvero quali problemi
ha incontrato e incontra oggi il progettista, quali difficoltà sono presenti
nel suo lavoro (professionalità docente).
1.1 Come l’aumento della complessità del contesto impatta sulla struttura
del modello. Complessità: luogo comune o proposta operativa?
Come detto, gli anni a cavallo del nuovo millennio
evidenziano un cambiamento di paradigma.
I modelli apparsi alla fine degli anni ’90 e all’inizio del nuovo secolo
o le modifiche apportate in quegli anni ai modelli già presenti prendono atto
della complessità del sistema e della necessità di mettere lo studente al
centro. In realtà di complessità si parlava già da alcuni decenni soprattutto
in settori diversi: biologia, sociologia, scienze della terra. In ambito
educativo, utilizzando le review precedentemente indicate, la complessità e un
cambio di paradigma emergono come i riferimenti culturali da cui partire.
Reigeluth nel testo del 1999 parla di un salto di paradigma che descrive come
il passaggio dall’era dell’industrializzazione all’era dell’informazione. I
tratti essenziali del nuovo paradigma sono un approccio olistico, la
valorizzazione della diversità, del lavoro cooperativo, di un pensiero
collettivo, oltre a una nuova centralità dello studente. Le abilità richieste
sono il problem solving, il lavoro in team, un modo diverso di osservare il
mondo (Reigeliuth, 1999, 17).
Per Kirschner e van Merriënboer la complessità deriva dalla
struttura della classe, e dalle differenze in essa presenti, “dalla necessità
di integrare nei processi conoscenze, abilità e attitudini, di coordinare
abilità costituenti qualitativamente differenti, e spesso trasferendo ciò che è
stato appreso a scuola o nella formazione alla vita quotidiana e al lavoro”
(Kirschner & van Merriënboer, 2012, 244). Tale complessità richiede
dispositivi didattiche che permettano di integrare i differenti fili che
caratterizzano la complessità e propongono di utilizzare compiti di
apprendimento autentici.
Ci sono molti
esempi di modelli di progettazione teorica che sono stati sviluppati per promuovere
l'apprendimento complesso: apprendistato cognitivo (Collins, Brown, &
Newman, 1989), 4-Mat (McCarthy, 1996), episodi didattici (Andre, 1997), problem
solving collaborativo (Nelson, 1999), costruttivismo e ambienti di
apprendimento costruttivisti (Jonassen, 1999), imparare facendo (Schank,
Berman, & MacPerson, 1999), più approcci alla comprensione (Gardner, 1999),
star legacy (Schwartz, Lin, Brophy, & Bransford, 1999), nonché l'oggetto di
questo contributo, il Four-Component Instructional Design modello (van
Merriënboer, 1997; van Merriënboer, Clark & de Croock, 2002). Tutti questi
approcci si concentrano su compiti di apprendimento autentici come forza
trainante per l'insegnamento e l'apprendimento perché tali compiti sono
strumentali per aiutare gli studenti a integrare conoscenze, abilità e
attitudini (spesso denominate competenze), stimolare il coordinamento delle
abilità che costituiscono la risoluzione dei problemi o svolgere compiti e
facilitare il trasferimento di quanto appreso a compiti e situazioni
problematiche nuovi e spesso unici (Merrill, 2002b; van Merriënboer, 2007; van
Merriënboer & Kirschner, 2001) (idem).
La proposta, dunque, di van Merriënboer per affrontare la
complessità è integrare “conoscenze, abilità e attitudini” grazie a compiti
autentici.
Conoscenze, abilità e attitudini
Focalizziamoci sui tre temi: conoscenze, abilità e
attitudini. Per inciso i tre termini saranno poi ripresi dalla comunità europea
nel libro bianco sulle competenze.
I tre termini non sono nuovi nella ricerca didattica. Gagnè
ne parla nei suoi Principi già negli anni ‘70. Elenca cinque categorie di learning
capabilities: 1. Intellectual skills, 2. Cognitive strategies, 3. Verbal
information, 4. Motor skills, 5. Attitudes. Per “Attitude”
Gagnè intende “un tipo molto diverso di risultati di apprendimento, che ha che
fare non tanto con la conoscenza, quanto con l'emozione e l'azione. Questo è lo
stato acquisito dello studente chiamato atteggiamento” (Gagnè et al., 1992, 85).
Le Attitudes
sono stati umani complessi che influenzano il comportamento verso persone, cose
ed eventi. Per una serie di ragioni sembra auspicabile nel contesto attuale sottolineare
gli aspetti delle Attitudes connessi all'azione.
Riconoscendo
che un atteggiamento può derivare da una serie di credenze e che può essere
accompagnato e rinvigorito dall'emozione, la domanda importante sembrerebbe
essere: "Quale azione supporta?" La risposta generale a questa
domanda è che un atteggiamento influenza una scelta di azione personale
da parte dell'individuo. Una definizione di atteggiamento, quindi, è uno stato
interno che influenza la scelta dell'azione personale di un individuo
nei confronti di un oggetto, persona o evento (ivi, 86).
Per la nostra trattazione storica sull’evoluzione della
progettazione interessa ora comprendere come si modifichi la formazione per le Attitudes.
Gagnè, quindi collocandoci in una prospettiva estranea alla complessità,
sottolinea che sicuramente i metodi di istruzione da usare per raggiungere le Attitudes
desiderate differiscono considerevolmente da quelli applicabili alle conoscenze
e alle abilità (Gagnè, 1985) e propone due metodi: uno diretto, che consiste
nell’uso di specifici stimoli del docente per favorire comportamenti corretti,
e uno indiretto, in cui recupera Bandura (Bandura, 1969; 1977) e afferma che “un
metodo per stabilire o modificare atteggiamenti di grande importanza e utilità
diffusa è l’human modeling” (Gagnè, 1992, 89). In entrambi i casi la proposta
progettuale di Gagnè è di lavorare sulle Attitudes in modo specifico,
focalizzato e mirato.
Tutto si modifica negli autori che fanno riferimento alla
complessità. Come già visto, invece, in un approccio complesso si lavora sulle Attitudes
attraverso un approccio “integrato” grazie a compiti autentici in cui lo
studente opera contemporaneamente su conoscenze, abilità e Attitudes. In
altri termini si preferisce un approccio sistemico e si lavora sulla relazione
tra conoscenze, abilità e Attitudes, in modo olistico, invece di operare
separatamente su di esse come sembra optare un approccio cognitivista.
Dall’integrazione all’ibridizzazione
Oggi, alla fine della seconda decade del XXI secolo le
procedure sarebbero le stesse di quelle di venti anni fa? Nell’attuale contesto
post-umano e post-digitale le proposte rimangono quelle della complessità di
fine secolo? Vi sono elementi differenti? Se alla fine degli anni ’90 e nella
prima decade del secolo attuale si mettevano al centro un sistema e le
relazioni sistemiche che connettevano i suoi elementi, e si proponevano
pratiche didattiche che integravano i differenti elementi, oggi l’attenzione si
sposta su sistemi che permettono di affrontare la complessità e di poter
intervenire senza riduzionismi e senza che il sistema perda il suo carattere
complesso, ma è il concetto di integrazione che perde il suo valore e sembra
superato
La teoria della semplessità (Berthoz, ), le teorie del significato
per una scienza dell’innovazione (De Toni ; Vergani) e l’approccio del Terzo
spazio (Gutierrez, ; Flessner, ; xxxx, ) vanno in tale direzione. La necessità
di interagire con il sistema con un approccio olistico rimane presente, ma si
cerca di superare una serie di difficoltà che il costruttivismo e la
complessità hanno evidenziato in ambito educativo. L’approccio complesso,
presente in molte proposte costruttiviste, richiede una forte autonomia dello
studente e si adatta maggiormente a studenti che già posseggono una buona base
di abilità e conoscenze. Infine confonde la costruzione di senso in contesto
con la costruzione di conoscenze, di cui si è parlato nei capitoli precedenti.
Lesh e Doerr (2003) sottolineano come sia impossibile
costruire induttivamente regole che originano dalla condivisione sociale, come
avviene spesso nella matematica. Damiano (2013), parla del docente “nascosto” e come spesso la
costruzione “autonoma” dello studente avvenga sotto la direzione indiretta del
docente. Il lavoro dello studente più che una costruzione, è una ricostruzione
che segue rigidamente procedure date.
Le prospettive attuali, pur interne a un’ottica complessa,
ne modificano alcuni aspetti e affiancano a modalità operative in cui è
possibile integrare i fili in processi unitari, modalità in cui dimensioni
diverse dialogano e interagiscono pur mantenendo le loro caratteristiche e la
loro identità. Dialogano senza integrarsi. Il passaggio non è di poco conto.
Berthoz sottolinea come molti problemi complessi siano
risolti nei sistemi viventi grazie alla specializzazione, ovvero alla presenza
di “centri specializzati” che operano separatamente e con logiche differenti.
Un altro principio che invoca è quello della ridondanza, ovvero quando il
soggetto “prende in esame variabili importanti [e diverse] per la percezione e
l’azione” (19) operando su di esse in modo separato e autonomo. In altre
situazioni usa prospettive differenti per muoversi e operare: egocentrica,
allocentrica, e questo “ha il vantaggio di consentirci operazioni mentali
indipendenti” (ivi, 19). Nei sistemi complessi sono presenti processi paralleli
che a volte cooperano, altre operano autonomamente e sono ridondanti e svolgono
separatamente lo stesso compito, confrontandosi solo nella fase finale. In tal
modo favoriscono l’affidabilità (ivi, 9) e in altri casi la vicarianza, ovvero
la possibilità di risolvere un problema in modo alternativo (19).
La separazione
delle funzioni è una caratteristica essenziale degli organismi viventi. Negli
insiemi molecolari, così come nelle funzioni più elevate del sistema nervoso,
la dimensione temporale è un fattore di separazione delle funzioni. Alcuni
meccanismi molecolari, per esempio, lavorano molto rapidamente, altri in modo
più lento, e questo facilita la loro distinzione nel funzionamento molecolare.
Allo stesso modo nel controllo motorio, ma anche nella percezione, si
distinguono sistemi tonici, lenti, costanti e sistemi fasici, rapidi,
transitori. Questo si traduce nella separazione delle funzioni senso motorie in
moduli specializzati che cooperano: la differenziazione è un fattore di semplessità.
Più in generale la modularità è una delle proprietà fondamentali degli
organismi viventi (ivi, 8).
Sulla presenza di processi che richiedano tempi e velocità diverse
e non standardizzati, in altri termini processi differenti e ricorrenti, vi
sono gli studi di Daniel Kahneman. Il testo, uscito nel 2012 e tradotto in
Italia con il titolo “Pensieri lenti e pensieri veloci”, mostra l’utilizzo di
processi paralleli che concorrono a scelte finali e sistemiche per risolvere
problemi complessi. Tale conclusione deriva dallo studio empirico di molti
comportamenti umani in situazioni difficili che aveva permesso di evidenziare
come si procedesse con modalità separate e differenti, e con strategie sia
razionali, lente, altre emotive, veloci.
In campo educativo Gutierrez e Flessner e più recentemente McDougall
parlano di Terzo spazio per definire situazioni in cui si attivano e convivono
dimensioni differenti, temporali e spaziali. Per Gutierrez “la costruzione di
un Terzo Spazio collettivo si basa su un corpo di ricerca esistente e può
essere visto come un particolare tipo di zona di sviluppo prossimale”
(Gutierrez, 2008, 148). Studia percorsi didattici in cui la storia
dell’individuo e i saperi dell’individuo si ibridano con i contenuti
scientifici, attraverso dispositivi e processi di mediazione, quali la
biografia, il teatro, l’immaginazione, la simulazione, in cui “l'individuo e il
suo ambiente socioculturale cercano attivamente di cambiare l'altro per i
propri fini” grazie all’abitare le zone di confine dove la storia personale
diventa il tramite per la storia collettiva. La storia collettiva è anche la
cultura degli umani che ci hanno preceduto, la verticalità di cui parla Merieu
(xxx).
Il Terzo Spazio è questo ibridare dimensioni temporali e
spaziali, che, abitando i territori di confine, grazie a “sistemi di attività
multiple”, riorganizzano “i concetti quotidiani in concetti
"scientifici" (Vygotsky, 1978) o basati sulla scuola”. Permettono la
"collaborazione di diversi sistemi di attività" (Tuomi-Gröhn, 2003,
p. 200) e non solo la collaborazione di individui, per creare ciò che Engeström
e colleghi descrivono come zone interdipendenti di sviluppo
prossimale.
Il terzo spazio prevede la presenza di più dimensioni che si
confrontano, pur mantenendo la propria autonomia, e di un dispositivo che
favorisce a un tempo il dialogo e la valorizzazione della specificità di
ciascun proceso/concetto, che rende possibile il dialogo. La possibilità di
confronto senza integrazione riprende il concetto di ambiguità caro a
Merleau-Ponty (2003) quando afferma che
Il Soggetto
della percezione rimarrai ignorato finché non sapremo evitare l'alternativa
fra il naturato e il naturante, fra la sensazione come stato di coscienza e la
sensazione come coscienza di uno stato, fra l'esistenza in sé e l'esistenza per
sé. Ritorniamo quindi alla sensazione, guardiamola tanto vicino che essa ci
mostri il rapporto di colui che percepisce con il suo corpo e con il suo mondo
(ivi, 285).
Riprende il concetto analizzando il legame tra soggettività
e oggettività: “io non vivo mai interamente negli spazi antropologici, sono
sempre radicato in uno spazio naturale e inumano” (ivi, 383). “L’apparente e il
reale devono rimanere ambigui nel soggetto come nell’oggetto” così come
l’errore e la verità. È la presenza dell’errore che ci permette di comprendere
la verità, ma in tal senso l’errore deve rimanere errore ed essere compreso
come tale.
Un esempio di terzo spazio in campo educativo è proposto da Flessner.
Esamina il ruolo dei tirocini nella formazione iniziale degli insegnanti e lo
vede come uno spazio di confine in cui dialogano docenti della scuola e studenti
universitari e in cui si confrontano i saperi pratici degli esperti e i saperi
teorici. L’efficacia dei tirocini è data dalla presenza di due logiche
differenti che nel lavoro posso seguire traiettorie di avvicinamento, ma
resteranno sempre parallele in quanto seguono processi logici e assolvono a
funzioni diverse. L’autore parla di relazioni binarie per descrivere la
possibilità di dialogo senza integrazione.
First, third space theorists ask us to reconsider
binary relationships. Binaries are sets of terms ypically situated in
opposition to one another.
Building on the concept of binary relationships, Soja
(1996) noted that when considering a third space, ``the original binary choice
is not dismissed entirely but is subjected to a creative process of restructuring
that draws selectively and strategically from the two opposing categories
to open new alternatives" (p. 5). (Flessner, 2014, 2)
Per descrivere tale differente relazione binaria Flessner
sostituisce a integrazione “ibridizzazione” che coglie sia il dialogo sia la
permanente antitesi tra i due termini.
Dimensioni e terzi spazi della formazione
Ma nello specifico quali sono le dimensioni opposte che
interagiscono nella scuola attuale? Ne segnaliamo alcune che crediamo siano i
fondamentali e pervasive in quando la progettazione potrebbe essere vista come
uno spazio in cui tali differenti dimensioni dialogano.
La prima è l’intreccio tra una prospettiva epistemologica
e una prospettiva legata all’azione e al contesto. Dalla prima discendono i
processi legati alla logica interna delle discipline, induttiva o deduttiva,
dalla seconda quelli legati alla soluzione di situazione problematiche, che
implicano la conoscenza di un contesto, la decisione e la scelta di una
strategia contestualizzata, la consapevolezza della strategia utilizzata e
dell’impatto dell’esperienza sulla propria identità. Questi ultimi processi
implicano molto spesso logiche abduttive e probabilistiche. I compiti autentici
sono lo spazio in cui le due dimensioni si confrontano, mantenendo una propria
specificità, sia culturale, sia linguistica, sia operativa.
La seconda è l’interazione tra immersione e
distanziamento, tra uno sguardo interno alle situazioni e uno sguardo
esterno e, quasi, estraneo, che accompagnano l’agire individuale e collettivo.
La terza è tra una visione locale e una visione globale.
Quando alcuni decenni fa si vedevano appese nelle classi le cartine dell’Europa
e a fianco quelle della singola regione, la sensazione che si aveva era quella
di una lente che permetteva di cogliere nel grande un oggetto presente ma non
distinguibile. Oggi abbiamo Google Map: cambia la sensazione. Non sono messe a
fuoco diverse, ma sensi diversi che assegniamo allo stesso punto. Se vedo la
mia casa colgo i suoi particolati, le case vicine, gli alberi e gli spazi
presenti. Il senso è la struttura della mia casa e le relazioni prossime. Se
amplio e vedo tutta la mia città colgo la sua struttura urbanistica, la rete
viaria e il suo rapporto con gli elementi ambientali. Il senso è come è
posizionata la mia casa nella città, come è connessa al mondo. Se amplio ancora
e visualizzo tutta l’Italia colgo la sua forma, i suoi confini e le nazioni
vicine le catene montuose e le principali arterie, quali le città che posso
raggiungere. Fuor di metafora, a livello didattico, ho diverse dimensioni che
vivono intrecciate in ogni azione didattica. Dobbiamo rovesciare la
prospettiva: il modulo non è un’esplosione del curricolo, né esso viene esploso
nella sessione: il focus è sulla sessione, sull’azione che sto vivendo in
classe, che ha un senso per le interazioni che vivo in quel momento e per
l’argomento che affronto, ha un differente senso se lo guardo con lo sguardo
del modulo che mi permette di cogliere il nesso tra l’argomento e il tema, tra
la mia azione e quelle che l’anno preceduta e la seguiranno. E un senso ancora
diverso ha la mia azione se la inserisco nella traiettoria annuale, in un
progetto articolato e complesso sintetizzato dal curricolo. La stessa azione ha
tre sensi diversi a seconda della dimensione con cui la osservo ed essa,
l’azione, sintetizza e intreccia i tre sensi che seguono, comunque, ciascuno
una propria logica. Il curricolo, il modulo e la sessione non sono tre distanze
diverse da cui guardare uno stesso processo che viene colto più o meno
interamente, ma sono tre sensi diversi presenti nella stessa attività, quella
che si svolge qui ed ora.
La quarta è connessa allo spazio dove avviene la
formazione. La classe oggi è diversa. L’aula è un terzo spazio in cui
convivono più traiettorie. Contemporaneamente l’aula si dissolve tra spazi
diversi, fisici e virtuali, tra contesti diversi, formali e informali. Per
Branch e Dousay (2015) la complessità e
“le filosofie emergenti sull'istruzione e le teorie dell'apprendimento hanno
riorientato il concetto di "classe" per includere una più ampia gamma
di contesti. Mentre un'aula è definita come "un luogo in cui gli alunni si
incontrano" ed è tipicamente modellata dal paradigma sociale prevalente che
fino a tempi recenti ha replicato il nostro desiderio di compartimentalizzare,
coerentemente con l'era industriale. Il desiderio di reggimento e controllo si
rifletteva nelle aule modellate su modelli militari, ma le aule stanno
iniziando a riflettere un passaggio della società verso un'era
dell'informazione. Le aule dell'era dell'informazione possono essere situate in
siti remoti, accessibili in orari convenienti e personalizzate per adattarsi
alle capacità dei singoli studenti. Sebbene gli studenti possano ancora
"incontrarsi" per studiare la stessa materia, il luogo, il tempo e il
ritmo sono ora dinamici. Educatori e formatori dovrebbero considerare un'aula
come uno spazio di apprendimento. Sebbene ogni episodio di apprendimento
intenzionale sia distintivo e separato, ognuno rimane parte di uno schema
curricolare più ampio. Gli episodi di apprendimento sono caratterizzati da
diverse entità partecipanti che sono esse stesse complesse: lo studente, il
contenuto, i media, l'insegnante, i colleghi e il contesto, tutti interagenti
entro un periodo di tempo discreto mentre si muovono verso un obiettivo comune
(vedere la figura 5). (ivi, 2015, 29). Dall’aula, come spazio che integra le
differenze, si passa al terzo spazio di Gutierrez in cui al centro si pone il
dialogo tra le traiettorie individuali, tra di loro e con quella collettiva.
Nei prossimi paragrafi si esamineranno come queste quattro
dimensione vanno a dare forma alla proposta progettuale. Continuiamo ora a
vedere come sono cambiati nel tempo i modelli dell’ID.
1.2 Come varia la funzione del modello sulla progettazione. Modelli
prescrittivi o line guida
Nella prima edizione di “Instructional-design theories
and models” (1983) Reigeluth affermava che le teorie e i modelli presentati
forniscono indicazione prescrittive con indicazioni da seguire rigorosamente
per un insegnamento efficace. Nella seconda edizione, uscita nel 1999, l’autore
afferma:
le teorie
dell’instructional design sono “design oriented”, esse descrivono
metodi di istruzione e le situazioni in
cui tali metodi potrebbero essere usati,
i metodi potrebbero essere frammentati in componenti e i metodi sono
probabilistici (ivi, 7).
Le teorie “design oriented”, tipiche delle scienze umane, si
contrappongono alle teorie descrittive delle scienze dure (Simon, 1969). Esse sono
prescrittive nel senso che offrono linee guida ovvero “quali metodi usare per
raggiungere nel migliore dei modi un dato obiettivo”. Precisa immediatamente
che un metodo è prescrittivo non nel senso letterale del termine; non indica in
dettaglio cosa va fatto senza permettere variazioni. L’ID è “design oriented” e
i suoi suggerimenti non indicano certezze, ma probabilità.
Laurillard riprende il concetto di design oriented e nel suo
testo “Teaching as design science” sottolinea che l’insegnamento debba essere
visto come una scienza che non descrive il mondo, come fanno le scienze dure,
ma che cerca di migliorarlo.
Situazione e contesto
Reigeluth afferma che i metodi dell’ID sono validi in
determinate situazioni e non sono universali. Quale è il senso di situazione? È
un particolare né ovvio, né scontato. Per Calvani (2016) il focus della ricerca
nell’ambito dell’Instructional Design
si concentra
essenzialmente sui modelli e/o principi istruttivi e sulla loro efficacia nei
diversi contesti educativi. Tali dispositivi teorici hanno natura
progettuale strategica, tendono a indicare una serie di possibilità operative
valide e specifici contesti di apprendimento che funzionano in certe situazioni
e non in altre. Non sono pertanto da confondere con le teorie
dell'apprendimento giacché queste non dicono come gli attori devono operare per
raggiungere i risultati auspicati (ivi, 182).
La definizione, molto simile alla precedente, contiene un
termine, “contesto”, che se non approfondito potrebbe ingenerare confusione. Il
significato che gli autori precedenti sembrano assegnare a contesto sembra sia
quello di situazione prototipale, ovvero una situazione frequentemente
rintracciabile nella realtà quotidiana e descrivibile, indipendente dal qui e
ora. In altri termini contesto non significa ciò che avviene qui ed ora in base
alle relazioni uniche che possono presentarsi nella realtà, ma indica situazioni
prototipali facilmente riscontrabili in contesti diversi, quali il lavoro di
gruppo, la lezione frontale, la lezione dialogata specificando per ognuno dei
casi età e numero degli studenti coinvolti e altre caratteristiche.
Se il modello dipende da una situazione/contesto prototipale
deriva che sia possibile fornire un modello prescrittivo per ogni situazione.
Differente è interpretare il termine contesto come serie di relazioni che
connettono uno dato spazio-tempo e sono uniche e irripetibili. In tal caso contesto
dialoga con evento. Il modello non può indicare la successione delle azioni da
svolgere in modo prescrittivo, ma supporta il progettista nella costruzione di
un percorso cucito sul contesto. Invece di fornire le operazioni, propone le
domande guida con cui il progettista interroga il contesto, prima, e il proprio
artefatto poi. Ed è questa la logica che caratterizza la nostra proposta
operativa, nella parte finale del presente capitolo.
Ma cosa cambia tra vedere il modello come prescrittivo,
ovvero che propone delle azioni, e orientativo, ovvero che propone delle
domande? In primis precisiamo che le due cose non possono essere completamente
separate. Un esempio può essere di aiuto. Si prendano i nove elementi di Gagnè,
o i cinque principi di Merril o le evidenze di Hattie. Ogni indicazione ha una
sua logica e una sua verità, suggerisce qualcosa su cui fare attenzione, ma
come adottarla per progettare? Si
prenda un principio dei Merril: “Learning is promoted when learners engage in a
task-centered instructional strategy”. È sicuramente un suggerimento che
ogni docente deve tenere a mente mentre lavora. Ma è inutile per decidere
l’azione specifica. Per operare il docente deve decidere che tempi assegnare
per le varie attività e come relazionarle; la singola indicazione
“prescrittiva” non è di nessun aiuto, il docente non può decidere in base a
indicazione ma intervengono altri elementi grazie che permettono di
confezionare il processo. Dopo la compilazione può chiedersi se ha tenuto conto
dei vari suggerimenti. Il principio non funziona sicuramente come prescrizione
da eseguire, ma può funzionare come suggerimento prima e come valutazione poi per
comprendere se ha dato spazio all’attività degli studenti. Ugualmente seguendo
Hattie leggere che un dato processo, ad esempio il feedback, garantisce
maggiori performance non può essere prescrittivo nel senso che il docente per
progettare applica l’indicazione, ma sarà costretto a utilizzare per completare
il lavoro anche strategie anche meno performanti, forse perché più complesse o
eseguibili con modalità molto diverse e dovrà essere più attento a come
confezionarle. La progettazione, soprattutto in un contesto complesso come
l’attuale, richiede una visione sistemica e non può essere guidata da semplici
principi.
1.3 Come si modifica la relazione tra i blocchi. Modelli lineari e modelli
circolari
Per Gustavson (2002): “i processi possono essere descritti
con un singolo processo lineare o come un set di procedure concorrenti e
ricorsive” (ivi, 5). Molte critici definiscono i modelli dell’ID come
soffocanti,
passivi, rigidi e semplici a causa degli elementi visivi usati per comporre il
modello (Branch 1997). Ciò è in parte dovuto al fatto che i modelli ID sono
stati tradizionalmente rappresentati come successione rettilinee di scatole
collegate da linee rette con frecce unidirezionali e una o più linee di
feedback (revisione) parallele ad altre linee rette (Figura 3). Le
rappresentazioni rettilinee dei modelli ID spesso non riconoscono l’effettiva
complessità associate al processo formativo. Le composizioni curvilinee di
ovali collegati da linee curve con frecce a due direzioni riconoscono meglio la
complessa realtà del processo ID (vedi Figura 4). Tuttavia, anche qui rimane
una sequenza implicita, almeno tra gli elementi centrali (Branch e Dousay,
2016, 26)
Esaminiamo alcuni modelli. Partiamo da ADDIE: le cinque fasi
si susseguono linearmente anche se è interessante notare che ADDIE stesso nei vari volumi e in tempi diversi è
stato rappresentato con modalità grafiche diverse. Se la descrizione iniziale
presenta una struttura lineare, ovvero a waterfall, in cui ogni fase segue la
successiva, già nel volume del 1997 Gustavson presenta ADDIE con una a
struttura curvilinea e nel 2015 curvilinea e ricorsiva.
Immagini
Modello 1997, 2002, 2015
Simili differenti rappresentazioni si hanno per ASSURE,
anche se il progetto rimane intrinsecamente lineare.
Modificare la rappresentazione non produce di per sé una
differenza. Sicuramente i vari autori percepiscono che il docente non opera in
modo lineare, ma non è sufficiente modificare la rappresentazione per
descrivere/individuare gli elementi che rendono un modello strutturalmente
ricorsivo.
La linearità o la non linearità possono essere determinate
da due fattori:
-
Gli elementi: quali elementi/indicatori
determinano il progetto, come si relazionano tra loro e con il progetto? Ovvero
come il progetto può determinare cosa osservare? Gli indicatori di progetto
possono essere individuati fin dalla fase iniziale?
-
Il processo: come procede il progettista? Che
operazioni mette in atto?
Quando ADDIE venne alla luce l’obiettivo era quello di
fornire ai progettisti una procedura da seguire e l’indicazione non poteva che
essere lineare. Successivamente l’attenzione dei ricercatori ha tenuto conto di
come si stesse modificando la professionalità dei docenti e la loro capacità di
interpretare il processo, e, più recentemente, di leggere i contesti e di
progettare in base ad essi percorsi validi solo localmente. Se la domanda a cui
rispondevano i primi progettisti era: “come indicare a un progettista le
operazioni da fare per realizzare un progetto di qualità?” successivamente la
domanda diviene: “come supportare un professionista della progettazione nella
realizzazione dell’artefatto progettuale, sapendo che il processo non è lineare
ma comunque precede l’azione?” Infine oggi, come visto nel capitolo 6, se occorre
un progetto esplicito e dinamico che evolve insieme al contesto, se il progetto
e l’azione convivono nelle tre fasi, la domanda diviene “Come il docente
interagisce con la realtà e con il progetto”? il modello più che indicare cosa
fare (analizza il sistema, sviluppa e implementa i dispositivi), supporta il
docente su come dialogare con il sistema, indica che domande porsi per poi
effettuare le operazioni necessarie.
Il
modello accompagna il docente mentre pensa l’azione (progettazione), mentre è
immerso in essa (agire in classe) e mentre le rivede nella riflessione
(documentazione), evolve nei tre passaggi. Il progetto è profondamente connesso
all’azione ed evolve con essa e tramite essa. Più che prescrivere le
operazioni, suggerisce le domande da porsi lasciando al professionista le
scelte operative, come detto nel paragrafo precedente. Nella progettazione
l’azione è presente come esperienza del passato e come simulazione del futuro, nell’agire
in classe l’azione e l’idea dell’azione sono intrecciate ed evolvono
continuamente e contemporaneamente, nella documentazione il ricordo dell’azione
interagisce con la formalizzazione dell’azione.
Di ADDIE abbiamo già parlato. In nessuna fase il progettista,
il suo pensiero le sue domande e i suoi dubbi sono presenti durante il lavoro.
A partire da ADDIE Gagnè propone il processo descritto nella Figura x. La struttura può
essere presa a modello per la didattica per obiettivi. Si nota come dalla
definizione degli obiettivi iniziali si passi all’esame del contesto e man mano
alla articolazione dei vari blocchi. Ciò è possibile perché vi è un elemento
principale che orienta il progettista e da cui egli parte (gli obiettivi). La
struttura lineare proposta da Gagnè deriva dalla priorità assegnata agli
obiettivi per orientare il fare dei docenti. Altri modelli lineari, che hanno
avuto ampia risonanza, sono ASSURE e Dick, Carey e Carey (Rossi e Toppano,
2009, 122). Il modello di Dick, Carey e Carey inizia con l’identificare gli
Instructional Goals, mentre in ASSURE si parte dalle caratteristiche degli
studenti per definire gli obiettivi e poi segue un percorso simile a quello proposto
da Gagnè.
Contemporaneamente sono presentati
modelli non lineari.
Figura 3 - Esempio
di struttura curvilinea da Branch e Dounay (2016)
Come evidenzia Gustavson sebbene la
modalità descrittiva si modifichi, restano comunque dei processi che si
succedono. La ricorsività dipende molto spesso in questi casi dai processi
reali messi in atto dai progettisti ed è quello che accade per i Modelli che
appartengono al Rapid Prototyping.
Rapid prototyping
Negli anni ’90 due tipi di domande emergono rispetto al
percorso precedente:
1. è possibile possedere nella fase iniziale i valori di
tutte le variabili per poter definire a cascata i blocchi successivi?
2. osservando i progettisti mentre progettano, emerge che si
comportino con prevede il modello lineare? La progettazione è anche un processo
creativo, come evolve il modello lineare permette e accompagna processi
creativi?
La prima domanda potrebbe essere tradotta dicendo che la
conoscenza che il progettista ha del contesto evolve mentre progetta, poiché,
mentre avanza nel lavoro e in base a esso, emerge l’esigenza di conoscere ad
esempio cosa sanno gli studenti su specifici temi, che conoscenze e aspettative
hanno, quali risorse sono disponibili per il percorso.
Tra i modelli che utilizzano i processi ricorsivi e
circolari vi è il Rapid prototyping proposto Tripp e Bichelmeyer (1990)
e ripreso da Botturi, Cantoni, Lepori e
Tardini (2007) con ELAB. Si realizza un primo artefatto progettuale, un
prototipo, che si sperimenta prima sulla carta con simulazioni, poi, quando
l’artefatto sembra più affidabile, in situazioni controllate. Ogni
sperimentazione permette di evidenziare i pro e i contro, perfezionando così
l’artefatto e il processo. In base agli esiti delle sperimentazioni si rifinisce
l’artefatto, si ricercano ulteriori dati e informazioni relative al contesto
fino ad arrivare a uno risultato soddisfacente. Chiaramente la creazione di
prototipi e la loro sperimentazione in situazioni controllate non è possibile
per il docente della scuola che ha per progettare tempi ridottissimi a ridosso
dell’azione.
Un modello che tiene conto del processo ricorsivo e di tempi
sostenibili per il docente è FBS di Gero. La sua proposta prevede, dopo la
prima idea progettuale, una simulazione mentale durante la quale il progettista
“mette in atto” il percorso e analizza quello che potrebbe succedere, come
reagiscono gli studenti, le loro reazioni e i problemi cognitivi, emotivi e senso-motori
che potrebbero emergere. Il docente ha in mente un modello della classe
costituito dalle relazioni che intercorrono tra gli studenti e con i docenti. Nel
1990 Gero propone Function, Behavior, Structure (Gero, 1990), un modello che
distingue tre componenti dell’artefatto: le sue finalità (Function), i
comportamenti specifici che permettono la realizzazione delle finalità (ad
esempio gli obiettivi - Behavior) e la struttura dell’artefatto
(Structure). Era prevista una fase in cui si
verificava con una simulazione mentale se il progetto permettesse di
raggiungere i risultati previsti. Nel 2002 Gero migliora il suo modello e lo
definisce come situato: siamo nel periodo in cui tutti parlano di complessità e
di “situadness” avevano parlato Brown, Collins, e Duguid (1989) e Lave e Wenger
(1990). In un articolo che introduce FBS modificato gli autori affermano:
Possiamo
parlare di un processo ricorsivo, “un’interazione tra il fare e il
comprendere”. Questa interazione tra il progettista e l’ambiente determina il
processo di progettazione. Questa idea è chiamata “situadness”, i cui concetti
fondazionali si possono far risalire a Dewey e Barlett (Gero, Kannengiesser,
2002, p. 91).
Interessante il riferimento a Dewey e Barlett, visti come
ispirazione anche per settori non educativi. L’idea di progettare e il suo
ruolo cambiano. Più che un processo necessario per definire cosa deve fare il
progettista, la progettazione diviene per Gero un’interazione sia tra fare e
comprendere, sia tra progettista e mondo, il che richiama modelli enattivi e le
relazioni tra azione e comprensione proposta da Varela. I modelli di Gero sono
stati pensati per la progettazione industriale e per analizzare i processi
creativi. Va sottolineato anche che gli anni più recenti, per effetto delle
ricerche neuroscientifiche e dell’embodiment, abbiamo ulteriormente modificato
il significato di learning by doing di Dewey. Se nel modello iniziale,
ripreso poi in molti percorsi dell’attivismo americano e europeo e non ultimi
dal cognitive apprenticeship di Collins, Brown e Newman (1988), il rapporto è tra il fare e il conoscere, oggi il
rapporto è tra azione, del singolo e anche di altri grazie ai neuroni specchio,
e corpo nel suo complesso e nelle modellizzazioni incorporate che ne derivano.
MRK
Il modello proposto da Morrison, Ross, Kalman, and Kemp (MRK),
la cui prima edizione fu pubblicata nel 1981, è un esempio di modello
“curvilineo” secondo lo schema di Gustavson. Il modello (Kemp et al., 2011)
contrasta con la modalità classica dell’ID e inizia ponendo le seguenti
domande:
1. What level of readiness do individual
students need for accomplishing the objectives? 2. What instructional strategies are most
appropriate in terms of objectives and student
characteristics? 3. What technology or other resources are
most suitable? 4. What support is needed for successful
learning? 5. How is achievement of objectives
measured? 6. What revisions are necessary if a tryout
of the program does not match expectations? (p. 6) |
1. Di quale livello di preparazione hanno bisogno i singoli
studenti per raggiungere gli obiettivi? 2. Quali strategie didattiche sono più appropriate in termini di
obiettivi e caratteristiche dello studente? 3. Quale tecnologia o altre risorse sono più adatte? 4. Quale supporto è necessario per un apprendimento di successo? 5. Come viene misurato il raggiungimento degli obiettivi? 6. Quali revisioni sono necessarie se una prova del programma non
corrisponde alle aspettative? (p. 6) |
In base alle
risposte che fanno emergere come il docente si approccia alla progettazione
vengono proposte altre quattro domande:
1. For whom is the program developed? (learners) 2. What do you want the learners or
trainees to learn or demonstrate? (objectives) 3. How is the subject content or skill best
learned? (methods) 4. How do you determine the extent to which
learning is achieved? (evaluation) |
1. Per chi è sviluppato il programma?
(studenti) 2. Cosa vuoi che gli studenti o gli
allievi imparino o dimostrino? (obiettivi) 3. Qual è il modo migliore per
apprendere il contenuto o l'abilità della materia? (metodi) 4. Come si determina la misura in cui
si ottiene l'apprendimento? (valutazione) |
La struttura
ovale indica che
l'insegnante
/ progettista può iniziare ovunque e procedere in qualsiasi ordine. Questa è
essenzialmente una visione del sistema generale dello sviluppo in cui tutti gli
elementi sono interdipendenti e possono essere eseguiti indipendentemente o
simultaneamente a seconda dei casi.
Sebbene
il modello Morrison, Ross, Kalman e Kemp indichi che lo sviluppatore può
iniziare ovunque, nella loro narrazione viene presentato in un quadro
convenzionale che inizia con argomenti, compiti e scopi. L'orientamento in
classe del modello è evidente attraverso la scelta delle parole, degli
argomenti e del contenuto della materia per determinare ciò che verrà
insegnato. Dal punto di vista dell'insegnante, la forza di questo modello è il
concetto di iniziare "da dove sei". Inoltre, l'enfasi sul contenuto
della materia, sugli obiettivi e sugli scopi e sulla selezione delle risorse lo
rende attraente per gli insegnanti.
Questo modello non solo è uno dei pochi che continua a subire
modifiche nel tempo, ma è anche praticato dai docenti di tutti i livelli di
scuola nelle pratiche quotidiane.
Figura 4 - MRK model
1.4 Quali sono gli elementi da cui partire per la progettazione
Il quarto elemento, che differenzia i vari modelli e che si
è modificato nel tempo dagli anni 70 ad oggi, analizza come individuare il
punto da dove iniziare la progettazione. In parte il problema si connette a
quello analizzato nel passaggio precedente: una progettazione ricorsiva
modifica il punto di partenza, anche per il solo fatto di prevedere ripartenze.
Decidere da dove partire è un problema emerso fin dagli anni
’80 del secolo scorso quando si è posto il problema se partire dagli obiettivi
o dall’analisi dei bisogni. Gagnè inserisce nel blocco iniziale la definizione
degli obiettivi, e, in base ad essi, definisce il percorso successivo; Dick,
Carey e Carey, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1978, iniziano dai
bisogni degli studenti e del contesto e AASURE, la cui prima versione risale al
1992, dalle caratteristiche degli studenti.
In Italia nel 1983 esce per i tipi della SEI “Progettazione
didattica” di Michele Pellerey, un testo utilissimo per i docenti di quel
tempo, ma ancora attualissimo perché coglie in profondità i problemi didattici.
Già nella premessa dopo aver descritto i filoni di ricerca che portano alla
progettazione, i curriculum studies, le analisi del comportamento e l’Educational
Technologies, sottolinea il pericolo che si potrebbe correre nello strutturare
i modelli progettuali: “L'elaborazione di modelli sempre più astratti e
formali, privi quindi di contenuti reali e lontani dalla prassi educativa”; “la
priorità data alla operazionalizzazione tecnologica con rischio di una
progressiva disumanizzazione del rapporto educativo; lo sviluppo di un
tecnicismo fine a se stesso che di fatto può rinforzare sia il burocratismo,
sia prassi didattiche scadenti” (11).
Le pagine in cui si percepisce il forte legame dell’autore, non
solo con i contesti di ricerca internazionale, ma anche con la scuola militante
sono quelle che indica da dove partire per progettare. Il percorso spesso
descritto per la progettazione che dalle finalità passa a definire, prima, gli
obiettivi educativi, poi gli obiettivi didattici, per infine definire e articolare
contenuti, metodi e strumenti
appare ai più
artificioso e produttivo solo se portato a termine in un periodo di tempo assai
lungo e con competenze già a buon livello di sviluppo. Ma ciò non è possibile
fare quando si è impegnati nell’azione didattica quotidiana e si è ancora un po’
disarmati tecnologicamente. Meglio partire dalle esperienze didattiche già
conosciute e farla espandere per così dire all'interno fino a configurarle in vere
e proprie unità didattiche correttamente strutturate.
La critica alla artificiosità e, diremmo noi, la non
sostenibilità sembra trasferibile facilmente a molte proposte oggi presenti “sul
mercato” in Italia. Così come ci sembra trasferibile il suggerimento di partire
da esperienze di apprendimento, più che da semplici contenuti. Le esperienze e
le attività didattiche emergono dalle prassi condivise tra docenti, dai libri
di testo, dall’esperienza personale e dalla ricerca. La proposta tiene conto in
modo olistico di vari fattori e, soprattutto, descrive bene le modalità operative
dei docenti.
È questa una costante del modo di agire dei docenti che si è
mantenuta nel tempo: il punto di partenza è differente in differenti situazioni
e, spesso, l’input si intreccia anche con altri fattori che vanno ad
affiancarsi al primo, così che, difficilmente, emerge un input unico e sempre
determinante per ogni percorso.
Si parte dall’argomento proposto nel testo, dall’obiettivo
presente nelle Indicazioni o nel curricolo, da una domanda di uno studente, da
un errore ripetuto nella classe, da una proposta esterna, da una risorsa
divenuta disponibile. Le scintille da cui partire possono essere molte, ma poi
occorre tenerle presenti e ricorsivamente prendere in considerazione.
2 Come si decide: modello prescrittivo e modello situato
Affrontiamo ora il problema centrale della progettazione
didattica: quali sono i processi che il docente mette in atto per decidere il
percorso da effettuare? La parola chiave è sicuramente decisione che nel tempo
assume significati differenti in quanto è connessa con professionalità. Se
cambia la professionalità docente, come sta avvenendo in questa fase storica,
cambiano il modo di decidere, le responsabilità e i modi di agire.
Le analisi precedenti e i cinque elementi considerati
(complessità, prescrittività, ricorsività, certezza e professionalità) anche se
analizzato separatamente sono tra loro fortemente legati. La complessità
impatta con la presenza di molti input, la ricorsività con l’incertezza dei
valori da assegnare ai singoli indicatori. Da questi cinque elementi, cambiati nel
tempo per effetto delle trasformazioni socio-culturali, emergono due modelli che
possiamo descrivere come contrapposti che descrivono i processi decisionali messi
in atto durante la progettazione didattica. I due modelli possono essere
collocati agli estremi di una linea e tra i due estremi sono presenti tante
posizioni intermedie che prevedono modalità di lavoro miste. A un estremo
collochiamo il modello prescrittivo, che potremmo descrivere come top
down, e all’altro il modello situato che potremmo descrivere come
ricorsivo e sistemico.
2.1 Modello prescrittivo
Il modello prescrittivo si basa su regole/principi e linee
guida che guidano il progettista nei vari passaggi. Applicando tali
regole/principi il progettista ha un’alta probabilità di predisporre un
percorso valido ed efficace. Chiaramente anche gli autori che propongono un
modello prescrittivo non sottovalutano la presenza dell’evento, tipica delle
scienze umane, e pertanto parlano di probabilità
Tale modello è adatto a situazioni a bassa complessità, dove
sono possibili processi lineari e dove,
ad esempio, a partire dagli obiettivi, nei quali sono compresi anche
aspetti disciplinari, si delinea il processo seguendo indicazioni precise per i
vari passaggi. Il percorso attuato è a waterflow e per passare da uno step al
successivo le regole/principi forniscono le indicazioni per architettare il
processo. La valutazione del singolo processo è data dal rispetto delle
indicazioni progettuali. In questo modello le scelte vengono prese man mano che
il processo avanza: si individuano gli obiettivi, poi i vari dispositivi, poi i
processi. Forse non è corretto parlare di decisione in relazione a questo
percorso in quanto le proposte sono
guidate in modo prescrittivo da dettami progettuali e non implicano un
intervento “soggettivo” del docente. La revisione del modello, la fase Evaluate,
avviene dopo la sua sperimentazione nel campo ed è un feedback esterno al
processo progettuale. Non avviene in base a una riflessione del progettista, ma
è esterna all’azione progettuale e permette di revisionare il modello dopo la
sua applicazione. Poiché le scelte vengono attuate in ogni step e derivano
dagli elementi specifici da definire in quel dato step, la visione di insieme e
la coerenza del progetto è data dalla correttezza dei singoli passaggi,
seguendo un modello riduzionista in cui la correttezza delle parti garantisce
la validità del progetto.
Il modello di Gagnè è un prototipo di tale modello. Stesso
discorso può valere per la progettazione per obiettivi.
2.2 Modello situato e sistemico
Il modello situato parte dal presupposto che i fili da
intrecciare sono molteplici e che la trama finale è connessa alle modalità con
cui tali fili sono intrecciati. Tutto ciò dipende dal contesto specifico, dal
qui ed ora. La decisione, che il progettista deve prendere per definire il
progetto, si focalizza sulla rete di relazioni tra gli stessi, in base al
dialogo tra progettista e contesto, e sull’equilibrio da costruire tra i singoli
elementi nel progetto finale, dipende dal sistema più che dagli elementi.
Come descritto quando si è parlato di terzi spazi, il
progettista si trova a operare tra diverse dimensioni che viaggiano parallele.
Tali dimensioni non hanno connessioni predeterminate e valide in assoluto. Il
progetto le fa dialogare e deve costruire un’equilibrazione tra le stesse. La
decisione è presa in base all’equilibrio globale della struttura e in tal senso
possiamo parlare di visione sistemica. Il modello prevede l’alternanza tra immersione,
in cui si prefigura il percorso, e il distanziamento, in cui si esaminano i processi
e se ne valuta la coerenza interna ed esterna. Se nell’immersione si prendono
in considerazione vari input, la decisione si concretizza nel momento del
distanziamento in cui grazie a processi riflessivi e alla simulazione mentale
si valuta se il percorso progettato possa funzionare e sia sostenibile. Tale fase
è interna alla progettazione e si ripete ricorsivamente in quanto è difficile
che il primo percorso pensato non necessito di interventi più o meno radicali.
La valutazione, necessaria per prendere decisioni, in questo
caso è parte essenziale del percorso progettuale e consiste nell’analizzare la
coerenza interna ed esterna del percorso proposto, la sua sostenibilità, la sua
valenza sistemica.
Si cercherà ora di dettagliare i vari momenti e, soprattutto,
quali dispositivi possano garantire la riflessione e la decisione.
2.2.1 Il modello Gero
Un modello che contiene in modo esplicito la valutazione e
la decisione come elementi interni del processo progettuale è il modello FBS di
Gero, già descritto per alcuni aspetti precedentemente. Nasce nell’industrial
design e ha il seguente schema:
Prevede la
formalizzazione delle Funzioni (F) e dei Comportamenti desiderati (Be) in base
ai quali si prefigura la Struttura/percorso (S). Attraverso una Simulazione
mentale si vede cosa potrebbe succedere quando il percorso viene messo in atto,
ovvero quali Situazioni si presentano (Bs). A questo punto vi è la fase della Decisione
(processo 4) durante la quale prima si confrontano le Situazioni finali
desiderate con le Situazioni finali che si prevede di ottenere con il percorso
realizzato e poi si valuta se le differenze tra le due soluzioni sono
accettabili o sia necessario rivedere tutto il processo, ovvero le Funzioni
(processo 8), I comportamenti (processo 7), la struttura (processo 6) per poi arrivare
a una nuova proposta di Struttura. Il percorso si ripete in modo ricorsivo.
Al cuore del processo vi è dunque il processo 4 in cui,
grazie a una simulazione mentale, il progettista confronta i risultati attesi
con i risultati raggiungibili in base alla struttura progettata e decide se
accontentarsi del risultato ottenuto o riiniziare il processo revisionando
quanto fatto.
La presa di decisione si concentra in questa fase e la
valutazione diviene uno dei processi interni al percorso.
Nei due modelli (A e
B) il concetto di decisione è differente, così come si modifica il concetto di
valutazione, interno al processo in B, esterno in A. Il modello B a nostro
parere meglio si adatta al livello di complessità del contesto attuale e della
scuola. Richiede professionalità capaci di dialogare con i contesti e di
decidere in situazione.
Anche Berthoz (2003) connette decisione a simulazione grazie
a studi in ambito neuro-scientifico. Per Berthoz la decisione è simulazione
dell’azione (ivi, 12).
“La decisione non è solo ragione (raison), essa è anche azione. Non è un puro
processo intellettuale, un gioco logico che è possibile tradurre in un’equazione.
Una decisione implica sicuramente una riflessione, ma essa porta già in sé
stessa integrandoli gli elementi del passato, l’atto sul quale essa si sblocca” (idem). La
decisione prevede un’anticipazione del futuro, “una predizione, una certa
capacità di predire le conseguenze delle azioni di risposta a delle
perturbazioni e d’adattamento della risposta alle condizioni dell’ambiente”
(ivi, 343). E tutto ciò richiede di simulare l’azione in base al modello di
ambiente.
La decisione segue un processo differente nei casi in cui la
scelta è tra un numero limitato di possibili comportamenti, dove è possibile
attivare processi di stimolo-risposta e modalità operative meccaniche, dalle
situazioni complesse in cui la decisione permette “di elaborare strategie e non
solo selezionare dei comportamenti” (ivi, 344). In questo secondo caso la
decisione è frutto dell’interazione tra differenti componenti cerebrali che si
sono sviluppate in sintonia e operano “in ragione di un principio di armonia e
d’equilibrio” (idem). Il salto assegna all’azione un ruolo differente. Non è
solo rispondere a una situazione problematica, ma delineare un mondo e tentare di
costruirlo. Le scienze della progettazione hanno la finalità di modificare il
mondo, così come oggi la relazione interattiva tra natura e cultura assegna all’agire
umano un ruolo attivo e politico, come affermano i teorici del
post-costruttivismo.
Le due situazioni e le due modalità operative si basano su
due concezioni diametralmente opposte del cervello umano: “la concezione detta “rappresentazionale” che vorrebbe che il cervello costruisse un’immagine
del mondo che guida l’azione; e la concezione di un cervello che è una parte del
mondo, che ne ha internalizzato le proprietà e ne emula alcune, ma li rapporta
ai suoi propri scopi che operano la realtà esterna
proiettandone le proprie percezioni, i propri desideri, le proprie intenzioni”
(ivi, 345). In tal modo interagisce con contesto e crea dei mondi.
Anche Gallese, sempre a partire dagli studi in ambito
neuroscientifico, assegna un ruolo importante alla simulazione nella cognizione
sociale e parla di simulazione incorporata.
2.2.1 Il modello Gero
Un modello di progettazione per la didattica: il modello FVP
La proposta di Gero è stata adattata al mondo della scuola
(Rossi & Toppano, 2009) ed è stato proposto il modello FVP.
Prima di descrivere il modello occorre fornire alcuni dati emersi da una ricerca su come progettano gli insegnanti realizzata chiedendo ai docenti di esplicitare le loro modalità di lavoro per progettare. Il quadro che emerge, leggendo oltre duecento risposte, mostra una situazione in cui sono presenti alcuni livelli tra loro autonomi collocati a distanze differenti dal docente, più o meno lontani, nello spazio della progettazione, come fossero piani trasparenti che non hanno relazioni tra di loro, ma che dialogano nella mente del docente.
Nel piano più vicino sono presenti eventi avvenuti nel
contesto della classe oggi e qui: comportamenti di studenti, errori ripetuti,
situazioni critiche interne o esterne alla scuola. Nel piano successivo sono
descritti i materiali e i supporti di cui può fruire il docente: quanto propone
il testo, le risorse della scuola o della rete, i supporti che può trovare
nell’ambiente. Il piano ancora più distante propone le tematiche connesse a
quelle trattate secondo una struttura disciplinare, gli obiettivi pensati a
breve, i nodi da affrontare nel medio periodo, le sue esperienze didattiche
negli anni precedenti in relazione al tema trattato o da trattare. Infine, come
in uno sfondo, il docente fa riferimento alle Indicazioni nazionali, al
curricolo di istituto, ai documenti di riferimento della scuola. Nessuno di
tali piani dipende in modo meccanico dagli altri e nessuno di tali piani impone
in modo deterministico l’azione al docente. Il docente si muove tra i vari
piani come se giocasse con un cubo di Kubric facendo in modo di costruire una
struttura equilibrata e coerente che tenga conto di tutti i piani che trova nel
suo spazio di progettazione.
In base a tutto ciò immagina un percorso, immersione, e poi si
pensa a cosa succederà in classe quando lo attuerà, simula il percorso
progettato nel suo modello di classe, effettua una simulazione mentale. Questa
seconda fase può essere descritta come un’alternanza di immersione, mentre
simula, e distanziamento, mentre osserva come evolve il sistema. È un processo
inconsapevole e meccanico: difficilmente il docente decide di simulare, è
incarnato nel suo modo di pensare la progettazione come azione. Si chiede quale
reazione possano avere i singoli o il gruppo sia a livello cognitivo, sia
emotivo in elazione agli argomenti trattati, dove incontreranno difficoltà o
dove i passaggi saranno tanto scontati da annoiarli, quanto durerà l’attenzione
e come si articolerà nel tempo. Emerge immediatamente l’importanza di simulare
l’azione e come la decisione sia una azione simulata. La valutazione non è
determinata dall’efficacia della singola strategia o attività, non dipende solo
da come è collocata nella scala di Hattie. Una stessa attività in momenti
diversi della giornata può avere più o meno successo e la valutazione non
dipende solo dall’efficacia in relazione all’apprendimento, ma dall’equilibrio
complessivo del percorso, dal modo con cui l’attività è in sintonia con il
regime ondulatorio dell’attenzione e tiene conto delle conoscenze specifiche e
degli interessi e motivazioni del gruppo classe. Cosicché il successo di un
percorso è dovuto a un canto che in una certa fase della giornata ha permesso
una pausa rigenerativa, così come da un feedback fornito nel momento
opportuno.
Il modello presentato si discosta in parte dal modello di
Gero in quanto le due fasi iniziali, l’analisi delle funzioni e l’analisi dei
comportamenti, in Gero sono in successione. Nel modello che proponiamo sono
invece presenti ma autonome e non in successione differenti input. Il dibattito
degli ultimi anni ha superato la relazione di causa effetto tra fini e mezzi e
come detto nel progettare dei docenti vi sono differenti piani presenti, che
però non agiscono meccanicamente gli uni sugli altri. Alcuni intervengono nel
pensare l’idea iniziale, che spesso parte da una domanda o dal suggerimento del
testo o da un materiale presente, altri intervengono in una fase successiva
quando si valuta la coerenza del percorso con il senso interno e con i
riferimenti esterni: come il percorso di oggi si connette con il percorso
annuale? Come gli obiettivi e le acquisizioni di oggi si muovono nell’ottica
delle competenze e obiettivi annuali? Altre volte lo sguardo lungo suggerisce
un’attività la cui sostenibilità e attuabilità viene valutata in base alle
risorse presenti e ai tempi a disposizione.
Le linee guida condivise da molti autori
Pur essendo i modelli A
e B diversi e adatti a contesti diversi possono supportare il lavoro del
docente mentre progetta anche se in modo differente.
I modelli per progettare possono indicare il processo
mentale che il docente dovrebbe seguire o proporre dei suggerimenti relativi
all’artefatto progettuale. A questa seconda categoria appartengono, ad esempio,
i nove eventi di Gagnè e i cinque principi di Merril. Anche se le indicazioni
di questi modelli non può guidare in modo prescrittivo il docente possono
fornire delle indicazioni su come approcciare la progettazione. Dalla lettura
dei modelli che suggeriscono alcune caratteristiche dell’artefatto emerge che
tra di essi ci sono molti punti di contatto che ora sottolineeremo. Prenderemo
come riferimenti non solo Gagnè, Merril e Hattie, ma anche Laurillard.
Il primo suggerimento è tener conto delle conoscenze
pregresse degli studenti. Gagnè afferma: “Ricordare agli studenti i contenuti
già appresi, per coinvolgere la memoria a lungo termine”, Merril “Learning is
promoted when learners activate relevant prior knowledge or experience”, Laurillard
parla della strategia del ponte.
Un secondo suggerimento è attivare lo studente. Merril
sottolinea che l’apprendimento è favorito se
gli studenti “Osservano un sperimentano” (primno principio), “Applicano
una nuova conoscenza” (secondo principio) e “Sono coinvolti in una strategia
basata su compiti” (terzo principio). Gagnè invita Eliciting
performance favorendo la creazione di risposte da parte dello studente. Precedentemente
Dewey proponeva come elemento fondante della sua prospettiva il Learning by
doing e l’approccio attivista prima e quello costruttivista poi facevano dell’attività
dello studente l’asse portante della loro proposta. Chiaramente non è possibile
assegnare al termine “attività” in Merril e nei teorici del costruttivismo lo
stesso significato in quanto profondamente differente è l’autonomia dello studente,
applicazione di una procedura in un caso, scoperta nell’altro
Altro principio è il feedback: Hattie descrive il feedback
come una delle strategie a più alto xxxx, Gagnè invita a “Fornire un feedback riguardo alle azioni”
(settimo elemento) e Laurillard sottolinea l’importanza del feedback, sia implicita
che esplicito per l’apprendimento. Evidenzia anche come le tecnologie permettono
di attivare efficaci feedback impliciti che evitando una presenza attiva del docente
permettono di avviare processi di autovalutazione e trasformazione.
Un altro elemento trasversale a molti autori è la
condivisione degli obiettivi con gli studenti e, dove possibile, la
co-progettazione. Per Gagnè è importante “Informare lo studente sull’obiettivo
formativo, per stabilire le giuste aspettative”, Laurillard riprende xxxxx e invita a condividere e discutere il
processo prima di attuarlo con gli studenti, per Seidel e Sturmer l’analisi di come l’insegnante
informa lo studente sul percorso è un elemento rilevante della professionalità
docente.
Il fatto di ritrovare simili “principi” in vari autori ne
sottolinea l’importanza. Merril afferma che i suoi principi siano stati
individuati confrontando molte teorie e siano validi a prescindere
dall’approccio teorico.
Tale affermazione
ci fa venire un certo prurito. Crediamo infatti che spesso siano presenti
tangenze linguistiche che però non sempre descrivono analogie profonde a
livello di significato. Si è detto prima del diverso significato che assegnano
a “attivare gli studenti” cognitivisti e costruttivisti: avvio di procedure
date, per i primi, scelta di procedure, per i secondi. Laurillard evidenzia
come ancora non ci sia una forte concordanza tra vari autori, che l’unico
autore che presente in molti manuali è Vygotskij, e che comunque esistono alcuni
punti di contatto tra ricercatori che appartengono a prospettive teoriche
differenti (2014, 93). Elenca i seguenti punti:
-
allineare gli obiettivi dell’insegnante a
quelli del discente;
-
assegnare obiettivi di lavoro che usino
concetti e azioni alla portata del discente;
-
chiarire la struttura dei concetti per
supportare l’organizzazione della conoscenza;
-
costruire un ambiente adeguato per il lavoro;
-
controllare le azioni dei discenti e
l’esposizione dei loro concetti;
-
fornire feedback significativi (idem) .
Come si vede ritornano le precedenti
indicazioni.
3 Una
sintesi
Il contesto attuale oggi richiede che la progettazione
elabori “strategie e non solo selezionare dei comportamenti” (Berthoz, 2003,
xxx) e al progettista di essere un professionista che costruisce percorsi
adatti al contesto e capaci di intrecciare tra loro più fili, come mostreremo
nel prossimo capitolo. In tale direzione non sono possibili regole prescrittive
che precisino le relazioni tra i componenti dell’artefatto. Esistono dalla
letteratura alcune linee guida da tener presente, come l’elenco proposto dalla
Laurillard dimostra, ma non possono essere adottate in modo prescrittivo.
Il processo di progettazione prevede invece la capacità di
elaborare un percorso situato centrato sull’azione. La qualità del percorso non
è dettate da regole esterne o dalla presenza di specifici componenti, ma dalla
coerenza interna ed esterna del sistema e dalla sostenibilità dello stesso.
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