Appendice. La storia dei modelli dell'Instructional design

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La ricerca su come progettare in campo educativo nasce negli Stati Uniti del secondo dopoguerra per rispondere ad alcune esigenze che emergevano in quel periodo. Benché già Dewey, come abbiamo ricordato nei capitoli precedenti, sottolineasse l’esigenza di una progettazione organica, solo negli anni Sessanta e Settanta si sente l’esigenza di analizzare e proceduralizzare i processi della progettazione. Nasce ADDIE, descritto in letteratura come il capostipite di tutti i modelli per la progettazione e proposto per affrontare situazioni “limite”, che non riguardavano le attività e le situazioni ordinarie del lavoro del docente. I primi modelli sulla progettazione sono stati costruiti per corsi che dovevano essere ripetuti più volte nel tempo con le stesse caratteristiche ed erogati a un numero molto alto di studenti. Tale esigenza determinava la formalizzazione delle procedure. La situazione era presente nella formazione dei soldati degli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta. Il “controllo del mondo” e le situazioni critiche, la guerra di Corea prima e quella del Vietnam poi, richiedevano l’addestramento continuo di un gran numero di soldati. Si voleva che la formazione permettesse l’acquisizione delle stesse performance, indipendentemente dalla competenza dei formatori. Già durante la seconda guerra mondiale l’esercito americano aveva individuato linee guida per la formazione e tali linee hanno nel tempo preso una forma più definita grazie anche all’impegno di centri universitari. Negli anni successivi alla fine del secondo conflitto si è cercato di comprendere se tali linee guida potessero essere utilizzate per definire il processo della progettazione didattica anche fuori dal contesto militare.

Nel 1975 il Center for Educational Technology della Florida University presenta ADDIE. Nel ‘74 Gagné, Briggs e Wager pubblicano “Principles of Instructional Design” e  Dick, Carey e Carey nel ’78 “The Systematic Design of Instruction”. Nei successivi trenta anni sono stati proposti centinaia di modelli e, molti di essi, non erano più destinati alle situazioni “limite”, ma erano rivolti ai docenti che ogni giorno lavoravano nelle scuole e nelle università. Alla fine del 1900 Gustavson aveva raccolto più di cento modelli (2002). Necessitava una visione di insieme. Nel 1981 Gustavson pubblica la prima review di modelli della progettazione, propone una tassonomia e pubblica “Survey of Instructional Development Models”. Edizioni successive dell’opera appaiono nel 1991, nel 1997, nel 2002 e, la più recente, nel 2015, curata da Branch e Dousay in cui il termine Devellopment è sostituito da Design, anche se il testo conserva la stessa struttura dei precedenti. Contemporaneamente Reighelut pubblica nel 1983 “Instructional-design theories and models: An overview of their current status”. Anche in questo caso vi è una seconda edizione nel 1999, una terza nel 2009 e una quarta nel 2016. Si noti come alcune date si ripetano e come gli anni intorno al 2000 vedano sia in un caso come nell’altro delle pubblicazioni. Entrambi i volumi sottolineano la presenza di un cambio di paradigma nel 2000, dall’era dell’industrializzazione all’era dell’informazione, della complessità, di un ruolo più attivo degli studenti. Era seguita nella prima decade del nuovo millennio una focalizzazione sulla qualità e sulla evidenza. Ma già nella seconda decade del XXI secolo si assiste a una seconda svolta. In effetti non solo escono le nuove edizioni dei due volumi, Survey of Instructional Design Models” nel 2015 e “Instructional-design theories and models: An overview of their current status” nel 2016, ma nel 2014 AERA propone un salto nella ricerca, sia a livello metodologico, che di tematiche. Sono riportati al centro l’attenzione sulle problematiche dell’educazione e una maggiore attenzione sulle tematiche sociali e culturali, senza perdere di vista una rigorosità capace di supportare con la ricerca le indicazioni da fornire ai pratici e ai decisori politici.

I lavori di Gustavson nelle varie edizioni propongono la stessa tassonomia e organizzano i modelli in tre ampi campi: classroom, product e system. La prima categoria è rivolta ai docenti che progettano quasi sempre singolarmente e debbono progettare con poche risorse e in tempi limitati, la seconda categoria riguarda team di progetto, composti da project manager, esperti di didattica, di contenuti e di tecnologie che sviluppano prodotti per i quali è prevista un’ampia distribuzione, mentre, infine, la terza categoria riguarda modelli utili alla progettazione di corsi e curricoli e richiedono risorse, tempi e team di esperti di sistema (Gustavson, 2002, 12-13). La nostra analisi si focalizzerà sulla prima categoria ed è rivolta a professionisti dell’educazione che insegnano in classe con vincoli esterni relativi al programma di massima, alle ore a disposizione, al numero degli studenti. Il ruolo del docente “è decidere lo specifico contenuto, pianificare le strategie, individuare i dispostivi mediali, animare la lezione e valutare gli studenti” (ivi, 18).

La natura dinamica dell'istruzione in classe, spesso accompagnata da un carico di insegnamento pesante, offre poco tempo per lo sviluppo completo di materiali didattici. Inoltre, le risorse per lo sviluppo di solito sono limitate. Di conseguenza, gli insegnanti devono identificare le risorse esistenti per l'adattamento alle condizioni, piuttosto che impegnarsi nello sviluppo originale. Inoltre, molti insegnanti elementari e secondari insegnano la maggior parte degli argomenti solo una volta all'anno e quindi si preoccupano meno per la rigorosa valutazione e revisione formativa associata a corsi e laboratori che vengono invece offerti simili più volte (Branch e Dousay, 2015, 41).

Gustavson e di Reigeluth definiscono il campo di ricerca relativo alla progettazione. Il primo tema dibattuto nel settore è relativo alla denominazione. Progettazione in inglese si traduce Design anche se i significati di progettazione e di design non si sovrappongono totalmente. Lo studio dei modelli di progettazione è presente sia nel: “Instructional Technology Literature”, sia nel “Educational Curricular Literature”. In tali contributi si parla di Instructional Development (ID) e più recentemente di Instructional Design (ID). AECT, l’associazione statunitense sulle tecnologie didattiche, nel 1977 definisce l’Instructional Development

un approccio sistematico per la progettazione, produzione, valutazione e utilizzo di un completo sistema di istruzione che include tutti gli appropriati componenti e il modello di gestione per usarli; lo sviluppo didattico implica più cose dello sviluppo del prodotto didattico, che tratta solo prodotti isolati, e più cose dell’instructional design che è solo una fase dell’instructional development” (ivi, 172)

Seels e Richey (1994) preferiscono parlare di Instructional System Design, invece di Instructional Development, che definiscono come “una procedura organica che include gli step necessari ad analizzare, progettare, sviluppare, implementare e valutare processi di istruzione” (ivi, 94).

I modelli affrontano due tematiche fondamentali: (1) i  passaggi che effettua il progettista, ovvero la successione delle operazioni che svolge per arrivare all’artefatto progettuale; (2) le caratteristiche che dovrebbe avere l’artefatto per essere performante. Il termine perfomante va chiarito in quanto alla sua base vi sono delle concezioni già affrontate nei capitoli precedenti: può un modello garantire la qualità dell’apprendimento? Che legame tra apprendimento e insegnamento? Quale dovrebbe essere la finalità di un modello?

Come si cercherà di approfondire le risposte alle precedenti domande non solo dipendono da un approccio teorico, ma si sono modificate nel tempo e con esse i modelli di ID.

1 Un classico da cui comunque partire: ADDIE

Il capostipite di tutti i progetti della formazione, come detto, è ADDIE. ADDIE è un acronimo: Analysis, Design, Development, Implementation ed Evaluation. Il modello è tanto semplice quanto ovvio e descrive le principali operazioni che il progettista effettua nel suo lavoro. Nella fase iniziale (Analysis) analizza la situazione, il contesto, i vincoli e prende in esame le finalità e gli obiettivi. In base all’analisi delinea i tratti principali del percorso e definisce gli indicatori (Design). Poi passa alla fase operativa: sviluppa i dispositivi (Develepment) e, successivamente, assembla le parti, forma i formatori e predispone tutto ciò che serve per attivare e gestire il corso (Implementation). Vi è poi una fase di valutazione di sistema per comprendere se il processo cammina come desiderato e per individuare possibili interventi correttivi (Evaluation). Il percorso precedente è tanto semplice quanto ovvio, ovvero presenta un percorso che esplicita quanto il buon senso e le pratiche quotidiane ci suggeriscono. Difficilmente potremmo criticarlo.

Il dibattito sulla progettazione, più che criticare ADDIE, mette a fuoco alcuni elementi e passaggi  che ora cercheremo di delineare. Se i processi principali sono quelli descritti da ADDIE, le differenza tra i vari modelli sono sulle relazioni e sulla successione dei vari step e su come i contesti impattano su relazioni, successione e lavoro del docente. In particolare:

1.      Come l’aumento della complessità del contesto impatta sulla struttura del modello (complessità).

2.      Come varia la funzione del modello sulla progettazione (prescrittività).

3.      Come si modifica la relazione tra i blocchi (ricorsività).

4.      Quali sono gli elementi da cui partire per la progettazione (certezza delle condizioni inziali).

5.      Come una diversa prospettiva della professionalità del progettista impatta sulla progettazione ovvero quali problemi ha incontrato e incontra oggi il progettista, quali difficoltà sono presenti nel suo lavoro (professionalità docente).

1.1 Come l’aumento della complessità del contesto impatta sulla struttura del modello. Complessità: luogo comune o proposta operativa?

Come detto, gli anni a cavallo del nuovo millennio evidenziano un cambiamento di paradigma.  I modelli apparsi alla fine degli anni ’90 e all’inizio del nuovo secolo o le modifiche apportate in quegli anni ai modelli già presenti prendono atto della complessità del sistema e della necessità di mettere lo studente al centro. In realtà di complessità si parlava già da alcuni decenni soprattutto in settori diversi: biologia, sociologia, scienze della terra. In ambito educativo, utilizzando le review precedentemente indicate, la complessità e un cambio di paradigma emergono come i riferimenti culturali da cui partire. Reigeluth nel testo del 1999 parla di un salto di paradigma che descrive come il passaggio dall’era dell’industrializzazione all’era dell’informazione. I tratti essenziali del nuovo paradigma sono un approccio olistico, la valorizzazione della diversità, del lavoro cooperativo, di un pensiero collettivo, oltre a una nuova centralità dello studente. Le abilità richieste sono il problem solving, il lavoro in team, un modo diverso di osservare il mondo (Reigeliuth, 1999, 17).

Per Kirschner e van Merriënboer la complessità deriva dalla struttura della classe, e dalle differenze in essa presenti, “dalla necessità di integrare nei processi conoscenze, abilità e attitudini, di coordinare abilità costituenti qualitativamente differenti, e spesso trasferendo ciò che è stato appreso a scuola o nella formazione alla vita quotidiana e al lavoro” (Kirschner & van Merriënboer, 2012, 244). Tale complessità richiede dispositivi didattiche che permettano di integrare i differenti fili che caratterizzano la complessità e propongono di utilizzare compiti di apprendimento autentici.

Ci sono molti esempi di modelli di progettazione teorica che sono stati sviluppati per promuovere l'apprendimento complesso: apprendistato cognitivo (Collins, Brown, & Newman, 1989), 4-Mat (McCarthy, 1996), episodi didattici (Andre, 1997), problem solving collaborativo (Nelson, 1999), costruttivismo e ambienti di apprendimento costruttivisti (Jonassen, 1999), imparare facendo (Schank, Berman, & MacPerson, 1999), più approcci alla comprensione (Gardner, 1999), star legacy (Schwartz, Lin, Brophy, & Bransford, 1999), nonché l'oggetto di questo contributo, il Four-Component Instructional Design modello (van Merriënboer, 1997; van Merriënboer, Clark & de Croock, 2002). Tutti questi approcci si concentrano su compiti di apprendimento autentici come forza trainante per l'insegnamento e l'apprendimento perché tali compiti sono strumentali per aiutare gli studenti a integrare conoscenze, abilità e attitudini (spesso denominate competenze), stimolare il coordinamento delle abilità che costituiscono la risoluzione dei problemi o svolgere compiti e facilitare il trasferimento di quanto appreso a compiti e situazioni problematiche nuovi e spesso unici (Merrill, 2002b; van Merriënboer, 2007; van Merriënboer & Kirschner, 2001) (idem).

La proposta, dunque, di van Merriënboer per affrontare la complessità è integrare “conoscenze, abilità e attitudini” grazie a compiti autentici.

Conoscenze, abilità e attitudini

Focalizziamoci sui tre temi: conoscenze, abilità e attitudini. Per inciso i tre termini saranno poi ripresi dalla comunità europea nel libro bianco sulle competenze.

I tre termini non sono nuovi nella ricerca didattica. Gagnè ne parla nei suoi Principi già negli anni ‘70. Elenca cinque categorie di learning capabilities: 1. Intellectual skills, 2. Cognitive strategies, 3. Verbal information, 4. Motor skills, 5. Attitudes. Per “Attitude” Gagnè intende “un tipo molto diverso di risultati di apprendimento, che ha che fare non tanto con la conoscenza, quanto con l'emozione e l'azione. Questo è lo stato acquisito dello studente chiamato atteggiamento” (Gagnè et al., 1992, 85).

Le Attitudes sono stati umani complessi che influenzano il comportamento verso persone, cose ed eventi. Per una serie di ragioni sembra auspicabile nel contesto attuale sottolineare gli aspetti delle Attitudes connessi all'azione.

Riconoscendo che un atteggiamento può derivare da una serie di credenze e che può essere accompagnato e rinvigorito dall'emozione, la domanda importante sembrerebbe essere: "Quale azione supporta?" La risposta generale a questa domanda è che un atteggiamento influenza una scelta di azione personale da parte dell'individuo. Una definizione di atteggiamento, quindi, è uno stato interno che influenza la scelta dell'azione personale di un individuo nei confronti di un oggetto, persona o evento (ivi, 86).

Per la nostra trattazione storica sull’evoluzione della progettazione interessa ora comprendere come si modifichi la formazione per le Attitudes. Gagnè, quindi collocandoci in una prospettiva estranea alla complessità, sottolinea che sicuramente i metodi di istruzione da usare per raggiungere le Attitudes desiderate differiscono considerevolmente da quelli applicabili alle conoscenze e alle abilità (Gagnè, 1985) e propone due metodi: uno diretto, che consiste nell’uso di specifici stimoli del docente per favorire comportamenti corretti, e uno indiretto, in cui recupera Bandura (Bandura, 1969; 1977) e afferma che “un metodo per stabilire o modificare atteggiamenti di grande importanza e utilità diffusa è l’human modeling” (Gagnè, 1992, 89). In entrambi i casi la proposta progettuale di Gagnè è di lavorare sulle Attitudes in modo specifico, focalizzato e mirato.

Tutto si modifica negli autori che fanno riferimento alla complessità. Come già visto, invece, in un approccio complesso si lavora sulle Attitudes attraverso un approccio “integrato” grazie a compiti autentici in cui lo studente opera contemporaneamente su conoscenze, abilità e Attitudes. In altri termini si preferisce un approccio sistemico e si lavora sulla relazione tra conoscenze, abilità e Attitudes, in modo olistico, invece di operare separatamente su di esse come sembra optare un approccio cognitivista.

Dall’integrazione all’ibridizzazione

Oggi, alla fine della seconda decade del XXI secolo le procedure sarebbero le stesse di quelle di venti anni fa? Nell’attuale contesto post-umano e post-digitale le proposte rimangono quelle della complessità di fine secolo? Vi sono elementi differenti? Se alla fine degli anni ’90 e nella prima decade del secolo attuale si mettevano al centro un sistema e le relazioni sistemiche che connettevano i suoi elementi, e si proponevano pratiche didattiche che integravano i differenti elementi, oggi l’attenzione si sposta su sistemi che permettono di affrontare la complessità e di poter intervenire senza riduzionismi e senza che il sistema perda il suo carattere complesso, ma è il concetto di integrazione che perde il suo valore e sembra superato

La teoria della semplessità (Berthoz, ), le teorie del significato per una scienza dell’innovazione (De Toni ; Vergani) e l’approccio del Terzo spazio (Gutierrez, ; Flessner, ; xxxx, ) vanno in tale direzione. La necessità di interagire con il sistema con un approccio olistico rimane presente, ma si cerca di superare una serie di difficoltà che il costruttivismo e la complessità hanno evidenziato in ambito educativo. L’approccio complesso, presente in molte proposte costruttiviste, richiede una forte autonomia dello studente e si adatta maggiormente a studenti che già posseggono una buona base di abilità e conoscenze. Infine confonde la costruzione di senso in contesto con la costruzione di conoscenze, di cui si è parlato nei capitoli precedenti.

Lesh e Doerr (2003) sottolineano come sia impossibile costruire induttivamente regole che originano dalla condivisione sociale, come avviene spesso nella matematica. Damiano (2013), parla del docente “nascosto” e come spesso la costruzione “autonoma” dello studente avvenga sotto la direzione indiretta del docente. Il lavoro dello studente più che una costruzione, è una ricostruzione che segue rigidamente procedure date.

Le prospettive attuali, pur interne a un’ottica complessa, ne modificano alcuni aspetti e affiancano a modalità operative in cui è possibile integrare i fili in processi unitari, modalità in cui dimensioni diverse dialogano e interagiscono pur mantenendo le loro caratteristiche e la loro identità. Dialogano senza integrarsi. Il passaggio non è di poco conto.

Berthoz sottolinea come molti problemi complessi siano risolti nei sistemi viventi grazie alla specializzazione, ovvero alla presenza di “centri specializzati” che operano separatamente e con logiche differenti. Un altro principio che invoca è quello della ridondanza, ovvero quando il soggetto “prende in esame variabili importanti [e diverse] per la percezione e l’azione” (19) operando su di esse in modo separato e autonomo. In altre situazioni usa prospettive differenti per muoversi e operare: egocentrica, allocentrica, e questo “ha il vantaggio di consentirci operazioni mentali indipendenti” (ivi, 19). Nei sistemi complessi sono presenti processi paralleli che a volte cooperano, altre operano autonomamente e sono ridondanti e svolgono separatamente lo stesso compito, confrontandosi solo nella fase finale. In tal modo favoriscono l’affidabilità (ivi, 9) e in altri casi la vicarianza, ovvero la possibilità di risolvere un problema in modo alternativo (19).

La separazione delle funzioni è una caratteristica essenziale degli organismi viventi. Negli insiemi molecolari, così come nelle funzioni più elevate del sistema nervoso, la dimensione temporale è un fattore di separazione delle funzioni. Alcuni meccanismi molecolari, per esempio, lavorano molto rapidamente, altri in modo più lento, e questo facilita la loro distinzione nel funzionamento molecolare. Allo stesso modo nel controllo motorio, ma anche nella percezione, si distinguono sistemi tonici, lenti, costanti e sistemi fasici, rapidi, transitori. Questo si traduce nella separazione delle funzioni senso motorie in moduli specializzati che cooperano: la differenziazione è un fattore di semplessità. Più in generale la modularità è una delle proprietà fondamentali degli organismi viventi (ivi, 8).

Sulla presenza di processi che richiedano tempi e velocità diverse e non standardizzati, in altri termini processi differenti e ricorrenti, vi sono gli studi di Daniel Kahneman. Il testo, uscito nel 2012 e tradotto in Italia con il titolo “Pensieri lenti e pensieri veloci”, mostra l’utilizzo di processi paralleli che concorrono a scelte finali e sistemiche per risolvere problemi complessi. Tale conclusione deriva dallo studio empirico di molti comportamenti umani in situazioni difficili che aveva permesso di evidenziare come si procedesse con modalità separate e differenti, e con strategie sia razionali, lente, altre emotive, veloci.

In campo educativo Gutierrez e Flessner e più recentemente McDougall parlano di Terzo spazio per definire situazioni in cui si attivano e convivono dimensioni differenti, temporali e spaziali. Per Gutierrez “la costruzione di un Terzo Spazio collettivo si basa su un corpo di ricerca esistente e può essere visto come un particolare tipo di zona di sviluppo prossimale” (Gutierrez, 2008, 148). Studia percorsi didattici in cui la storia dell’individuo e i saperi dell’individuo si ibridano con i contenuti scientifici, attraverso dispositivi e processi di mediazione, quali la biografia, il teatro, l’immaginazione, la simulazione, in cui “l'individuo e il suo ambiente socioculturale cercano attivamente di cambiare l'altro per i propri fini” grazie all’abitare le zone di confine dove la storia personale diventa il tramite per la storia collettiva. La storia collettiva è anche la cultura degli umani che ci hanno preceduto, la verticalità di cui parla Merieu (xxx).

Il Terzo Spazio è questo ibridare dimensioni temporali e spaziali, che, abitando i territori di confine, grazie a “sistemi di attività multiple”, riorganizzano “i concetti quotidiani in concetti "scientifici" (Vygotsky, 1978) o basati sulla scuola”. Permettono la "collaborazione di diversi sistemi di attività" (Tuomi-Gröhn, 2003, p. 200) e non solo la collaborazione di individui, per creare ciò che Engeström e colleghi descrivono come zone interdipendenti di sviluppo prossimale.

Il terzo spazio prevede la presenza di più dimensioni che si confrontano, pur mantenendo la propria autonomia, e di un dispositivo che favorisce a un tempo il dialogo e la valorizzazione della specificità di ciascun proceso/concetto, che rende possibile il dialogo. La possibilità di confronto senza integrazione riprende il concetto di ambiguità caro a Merleau-Ponty (2003) quando afferma che

Il Soggetto della percezione rimarrai ignorato finché non sapremo evitare l'alternativa fra il naturato e il naturante, fra la sensazione come stato di coscienza e la sensazione come coscienza di uno stato, fra l'esistenza in sé e l'esistenza per sé. Ritorniamo quindi alla sensazione, guardiamola tanto vicino che essa ci mostri il rapporto di colui che percepisce con il suo corpo e con il suo mondo (ivi, 285).

Riprende il concetto analizzando il legame tra soggettività e oggettività: “io non vivo mai interamente negli spazi antropologici, sono sempre radicato in uno spazio naturale e inumano” (ivi, 383). “L’apparente e il reale devono rimanere ambigui nel soggetto come nell’oggetto” così come l’errore e la verità. È la presenza dell’errore che ci permette di comprendere la verità, ma in tal senso l’errore deve rimanere errore ed essere compreso come tale.

Un esempio di terzo spazio in campo educativo è proposto da Flessner. Esamina il ruolo dei tirocini nella formazione iniziale degli insegnanti e lo vede come uno spazio di confine in cui dialogano docenti della scuola e studenti universitari e in cui si confrontano i saperi pratici degli esperti e i saperi teorici. L’efficacia dei tirocini è data dalla presenza di due logiche differenti che nel lavoro posso seguire traiettorie di avvicinamento, ma resteranno sempre parallele in quanto seguono processi logici e assolvono a funzioni diverse. L’autore parla di relazioni binarie per descrivere la possibilità di dialogo senza integrazione.

First, third space theorists ask us to reconsider binary relationships. Binaries are sets of terms ypically situated in opposition to one another.

Building on the concept of binary relationships, Soja (1996) noted that when considering a third space, ``the original binary choice is not dismissed entirely but is subjected to a creative process of restructuring that draws selectively and strategically from the two opposing categories to open new alternatives" (p. 5). (Flessner, 2014, 2)

Per descrivere tale differente relazione binaria Flessner sostituisce a integrazione “ibridizzazione” che coglie sia il dialogo sia la permanente antitesi tra i due termini.

Dimensioni e terzi spazi della formazione

Ma nello specifico quali sono le dimensioni opposte che interagiscono nella scuola attuale? Ne segnaliamo alcune che crediamo siano i fondamentali e pervasive in quando la progettazione potrebbe essere vista come uno spazio in cui tali differenti dimensioni dialogano.

La prima è l’intreccio tra una prospettiva epistemologica e una prospettiva legata all’azione e al contesto. Dalla prima discendono i processi legati alla logica interna delle discipline, induttiva o deduttiva, dalla seconda quelli legati alla soluzione di situazione problematiche, che implicano la conoscenza di un contesto, la decisione e la scelta di una strategia contestualizzata, la consapevolezza della strategia utilizzata e dell’impatto dell’esperienza sulla propria identità. Questi ultimi processi implicano molto spesso logiche abduttive e probabilistiche. I compiti autentici sono lo spazio in cui le due dimensioni si confrontano, mantenendo una propria specificità, sia culturale, sia linguistica, sia operativa.

La seconda è l’interazione tra immersione e distanziamento, tra uno sguardo interno alle situazioni e uno sguardo esterno e, quasi, estraneo, che accompagnano l’agire individuale e collettivo.

La terza è tra una visione locale e una visione globale. Quando alcuni decenni fa si vedevano appese nelle classi le cartine dell’Europa e a fianco quelle della singola regione, la sensazione che si aveva era quella di una lente che permetteva di cogliere nel grande un oggetto presente ma non distinguibile. Oggi abbiamo Google Map: cambia la sensazione. Non sono messe a fuoco diverse, ma sensi diversi che assegniamo allo stesso punto. Se vedo la mia casa colgo i suoi particolati, le case vicine, gli alberi e gli spazi presenti. Il senso è la struttura della mia casa e le relazioni prossime. Se amplio e vedo tutta la mia città colgo la sua struttura urbanistica, la rete viaria e il suo rapporto con gli elementi ambientali. Il senso è come è posizionata la mia casa nella città, come è connessa al mondo. Se amplio ancora e visualizzo tutta l’Italia colgo la sua forma, i suoi confini e le nazioni vicine le catene montuose e le principali arterie, quali le città che posso raggiungere. Fuor di metafora, a livello didattico, ho diverse dimensioni che vivono intrecciate in ogni azione didattica. Dobbiamo rovesciare la prospettiva: il modulo non è un’esplosione del curricolo, né esso viene esploso nella sessione: il focus è sulla sessione, sull’azione che sto vivendo in classe, che ha un senso per le interazioni che vivo in quel momento e per l’argomento che affronto, ha un differente senso se lo guardo con lo sguardo del modulo che mi permette di cogliere il nesso tra l’argomento e il tema, tra la mia azione e quelle che l’anno preceduta e la seguiranno. E un senso ancora diverso ha la mia azione se la inserisco nella traiettoria annuale, in un progetto articolato e complesso sintetizzato dal curricolo. La stessa azione ha tre sensi diversi a seconda della dimensione con cui la osservo ed essa, l’azione, sintetizza e intreccia i tre sensi che seguono, comunque, ciascuno una propria logica. Il curricolo, il modulo e la sessione non sono tre distanze diverse da cui guardare uno stesso processo che viene colto più o meno interamente, ma sono tre sensi diversi presenti nella stessa attività, quella che si svolge qui ed ora.

La quarta è connessa allo spazio dove avviene la formazione. La classe oggi è diversa. L’aula è un terzo spazio in cui convivono più traiettorie. Contemporaneamente l’aula si dissolve tra spazi diversi, fisici e virtuali, tra contesti diversi, formali e informali. Per Branch e Dousay (2015)  la complessità e “le filosofie emergenti sull'istruzione e le teorie dell'apprendimento hanno riorientato il concetto di "classe" per includere una più ampia gamma di contesti. Mentre un'aula è definita come "un luogo in cui gli alunni si incontrano" ed è tipicamente modellata dal paradigma sociale prevalente che fino a tempi recenti ha replicato il nostro desiderio di compartimentalizzare, coerentemente con l'era industriale. Il desiderio di reggimento e controllo si rifletteva nelle aule modellate su modelli militari, ma le aule stanno iniziando a riflettere un passaggio della società verso un'era dell'informazione. Le aule dell'era dell'informazione possono essere situate in siti remoti, accessibili in orari convenienti e personalizzate per adattarsi alle capacità dei singoli studenti. Sebbene gli studenti possano ancora "incontrarsi" per studiare la stessa materia, il luogo, il tempo e il ritmo sono ora dinamici. Educatori e formatori dovrebbero considerare un'aula come uno spazio di apprendimento. Sebbene ogni episodio di apprendimento intenzionale sia distintivo e separato, ognuno rimane parte di uno schema curricolare più ampio. Gli episodi di apprendimento sono caratterizzati da diverse entità partecipanti che sono esse stesse complesse: lo studente, il contenuto, i media, l'insegnante, i colleghi e il contesto, tutti interagenti entro un periodo di tempo discreto mentre si muovono verso un obiettivo comune (vedere la figura 5). (ivi, 2015, 29). Dall’aula, come spazio che integra le differenze, si passa al terzo spazio di Gutierrez in cui al centro si pone il dialogo tra le traiettorie individuali, tra di loro e con quella collettiva.

Nei prossimi paragrafi si esamineranno come queste quattro dimensione vanno a dare forma alla proposta progettuale. Continuiamo ora a vedere come sono cambiati nel tempo i modelli dell’ID.

1.2 Come varia la funzione del modello sulla progettazione. Modelli prescrittivi o line guida

Nella prima edizione di “Instructional-design theories and models” (1983) Reigeluth affermava che le teorie e i modelli presentati forniscono indicazione prescrittive con indicazioni da seguire rigorosamente per un insegnamento efficace. Nella seconda edizione, uscita nel 1999, l’autore afferma:

le teorie dell’instructional design sono “design oriented”, esse descrivono metodi di istruzione  e le situazioni in cui tali metodi potrebbero essere  usati, i metodi potrebbero essere frammentati in componenti e i metodi sono probabilistici (ivi, 7).

Le teorie “design oriented”, tipiche delle scienze umane, si contrappongono alle teorie descrittive delle scienze dure (Simon, 1969). Esse sono prescrittive nel senso che offrono linee guida ovvero “quali metodi usare per raggiungere nel migliore dei modi un dato obiettivo”. Precisa immediatamente che un metodo è prescrittivo non nel senso letterale del termine; non indica in dettaglio cosa va fatto senza permettere variazioni. L’ID è “design oriented” e i suoi suggerimenti non indicano certezze, ma probabilità.

Laurillard riprende il concetto di design oriented e nel suo testo “Teaching as design science” sottolinea che l’insegnamento debba essere visto come una scienza che non descrive il mondo, come fanno le scienze dure, ma che cerca di migliorarlo.

Situazione e contesto

Reigeluth afferma che i metodi dell’ID sono validi in determinate situazioni e non sono universali. Quale è il senso di situazione? È un particolare né ovvio, né scontato. Per Calvani (2016) il focus della ricerca nell’ambito dell’Instructional Design

si concentra essenzialmente sui modelli e/o principi istruttivi e sulla loro efficacia nei diversi contesti educativi. Tali dispositivi teorici hanno natura progettuale strategica, tendono a indicare una serie di possibilità operative valide e specifici contesti di apprendimento che funzionano in certe situazioni e non in altre. Non sono pertanto da confondere con le teorie dell'apprendimento giacché queste non dicono come gli attori devono operare per raggiungere i risultati auspicati (ivi, 182).

La definizione, molto simile alla precedente, contiene un termine, “contesto”, che se non approfondito potrebbe ingenerare confusione. Il significato che gli autori precedenti sembrano assegnare a contesto sembra sia quello di situazione prototipale, ovvero una situazione frequentemente rintracciabile nella realtà quotidiana e descrivibile, indipendente dal qui e ora. In altri termini contesto non significa ciò che avviene qui ed ora in base alle relazioni uniche che possono presentarsi nella realtà, ma indica situazioni prototipali facilmente riscontrabili in contesti diversi, quali il lavoro di gruppo, la lezione frontale, la lezione dialogata specificando per ognuno dei casi età e numero degli studenti coinvolti e altre caratteristiche.

Se il modello dipende da una situazione/contesto prototipale deriva che sia possibile fornire un modello prescrittivo per ogni situazione. Differente è interpretare il termine contesto come serie di relazioni che connettono uno dato spazio-tempo e sono uniche e irripetibili. In tal caso contesto dialoga con evento. Il modello non può indicare la successione delle azioni da svolgere in modo prescrittivo, ma supporta il progettista nella costruzione di un percorso cucito sul contesto. Invece di fornire le operazioni, propone le domande guida con cui il progettista interroga il contesto, prima, e il proprio artefatto poi. Ed è questa la logica che caratterizza la nostra proposta operativa, nella parte finale del presente capitolo.

Ma cosa cambia tra vedere il modello come prescrittivo, ovvero che propone delle azioni, e orientativo, ovvero che propone delle domande? In primis precisiamo che le due cose non possono essere completamente separate. Un esempio può essere di aiuto. Si prendano i nove elementi di Gagnè, o i cinque principi di Merril o le evidenze di Hattie. Ogni indicazione ha una sua logica e una sua verità, suggerisce qualcosa su cui fare attenzione, ma come adottarla per progettare? Si prenda un principio dei Merril: “Learning is promoted when learners engage in a task-centered instructional strategy”. È sicuramente un suggerimento che ogni docente deve tenere a mente mentre lavora. Ma è inutile per decidere l’azione specifica. Per operare il docente deve decidere che tempi assegnare per le varie attività e come relazionarle; la singola indicazione “prescrittiva” non è di nessun aiuto, il docente non può decidere in base a indicazione ma intervengono altri elementi grazie che permettono di confezionare il processo. Dopo la compilazione può chiedersi se ha tenuto conto dei vari suggerimenti. Il principio non funziona sicuramente come prescrizione da eseguire, ma può funzionare come suggerimento prima e come valutazione poi per comprendere se ha dato spazio all’attività degli studenti. Ugualmente seguendo Hattie leggere che un dato processo, ad esempio il feedback, garantisce maggiori performance non può essere prescrittivo nel senso che il docente per progettare applica l’indicazione, ma sarà costretto a utilizzare per completare il lavoro anche strategie anche meno performanti, forse perché più complesse o eseguibili con modalità molto diverse e dovrà essere più attento a come confezionarle. La progettazione, soprattutto in un contesto complesso come l’attuale, richiede una visione sistemica e non può essere guidata da semplici principi.

1.3 Come si modifica la relazione tra i blocchi. Modelli lineari e modelli circolari

Per Gustavson (2002): “i processi possono essere descritti con un singolo processo lineare o come un set di procedure concorrenti e ricorsive” (ivi, 5). Molte critici definiscono i modelli dell’ID come

soffocanti, passivi, rigidi e semplici a causa degli elementi visivi usati per comporre il modello (Branch 1997). Ciò è in parte dovuto al fatto che i modelli ID sono stati tradizionalmente rappresentati come successione rettilinee di scatole collegate da linee rette con frecce unidirezionali e una o più linee di feedback (revisione) parallele ad altre linee rette (Figura 3). Le rappresentazioni rettilinee dei modelli ID spesso non riconoscono l’effettiva complessità associate al processo formativo. Le composizioni curvilinee di ovali collegati da linee curve con frecce a due direzioni riconoscono meglio la complessa realtà del processo ID (vedi Figura 4). Tuttavia, anche qui rimane una sequenza implicita, almeno tra gli elementi centrali (Branch e Dousay, 2016, 26)

Esaminiamo alcuni modelli. Partiamo da ADDIE: le cinque fasi si susseguono linearmente anche se è interessante notare che ADDIE  stesso nei vari volumi e in tempi diversi è stato rappresentato con modalità grafiche diverse. Se la descrizione iniziale presenta una struttura lineare, ovvero a waterfall, in cui ogni fase segue la successiva, già nel volume del 1997 Gustavson presenta ADDIE con una a struttura curvilinea e nel 2015 curvilinea e ricorsiva.

Immagini Modello 1997, 2002, 2015

Simili differenti rappresentazioni si hanno per ASSURE, anche se il progetto rimane intrinsecamente lineare.

Modificare la rappresentazione non produce di per sé una differenza. Sicuramente i vari autori percepiscono che il docente non opera in modo lineare, ma non è sufficiente modificare la rappresentazione per descrivere/individuare gli elementi che rendono un modello strutturalmente ricorsivo.

La linearità o la non linearità possono essere determinate da due fattori:

-          Gli elementi: quali elementi/indicatori determinano il progetto, come si relazionano tra loro e con il progetto? Ovvero come il progetto può determinare cosa osservare? Gli indicatori di progetto possono essere individuati fin dalla fase iniziale?

-          Il processo: come procede il progettista? Che operazioni mette in atto?

Quando ADDIE venne alla luce l’obiettivo era quello di fornire ai progettisti una procedura da seguire e l’indicazione non poteva che essere lineare. Successivamente l’attenzione dei ricercatori ha tenuto conto di come si stesse modificando la professionalità dei docenti e la loro capacità di interpretare il processo, e, più recentemente, di leggere i contesti e di progettare in base ad essi percorsi validi solo localmente. Se la domanda a cui rispondevano i primi progettisti era: “come indicare a un progettista le operazioni da fare per realizzare un progetto di qualità?” successivamente la domanda diviene: “come supportare un professionista della progettazione nella realizzazione dell’artefatto progettuale, sapendo che il processo non è lineare ma comunque precede l’azione?” Infine oggi, come visto nel capitolo 6, se occorre un progetto esplicito e dinamico che evolve insieme al contesto, se il progetto e l’azione convivono nelle tre fasi, la domanda diviene “Come il docente interagisce con la realtà e con il progetto”? il modello più che indicare cosa fare (analizza il sistema, sviluppa e implementa i dispositivi), supporta il docente su come dialogare con il sistema, indica che domande porsi per poi effettuare le operazioni necessarie.

Il modello accompagna il docente mentre pensa l’azione (progettazione), mentre è immerso in essa (agire in classe) e mentre le rivede nella riflessione (documentazione), evolve nei tre passaggi. Il progetto è profondamente connesso all’azione ed evolve con essa e tramite essa. Più che prescrivere le operazioni, suggerisce le domande da porsi lasciando al professionista le scelte operative, come detto nel paragrafo precedente. Nella progettazione l’azione è presente come esperienza del passato e come simulazione del futuro, nell’agire in classe l’azione e l’idea dell’azione sono intrecciate ed evolvono continuamente e contemporaneamente, nella documentazione il ricordo dell’azione interagisce con la formalizzazione dell’azione.

Di ADDIE abbiamo già parlato. In nessuna fase il progettista, il suo pensiero le sue domande e i suoi dubbi sono presenti durante il lavoro. A partire da ADDIE Gagnè propone il processo descritto nella Figura x. La struttura può essere presa a modello per la didattica per obiettivi. Si nota come dalla definizione degli obiettivi iniziali si passi all’esame del contesto e man mano alla articolazione dei vari blocchi. Ciò è possibile perché vi è un elemento principale che orienta il progettista e da cui egli parte (gli obiettivi). La struttura lineare proposta da Gagnè deriva dalla priorità assegnata agli obiettivi per orientare il fare dei docenti. Altri modelli lineari, che hanno avuto ampia risonanza, sono ASSURE e Dick, Carey e Carey (Rossi e Toppano, 2009, 122). Il modello di Dick, Carey e Carey inizia con l’identificare gli Instructional Goals, mentre in ASSURE si parte dalle caratteristiche degli studenti per definire gli obiettivi e poi segue un percorso simile a quello proposto da Gagnè.

Contemporaneamente sono presentati modelli non lineari.

Figura 3 - Esempio di struttura curvilinea da Branch e Dounay (2016)

Come evidenzia Gustavson sebbene la modalità descrittiva si modifichi, restano comunque dei processi che si succedono. La ricorsività dipende molto spesso in questi casi dai processi reali messi in atto dai progettisti ed è quello che accade per i Modelli che appartengono al Rapid Prototyping.

Rapid prototyping

Negli anni ’90 due tipi di domande emergono rispetto al percorso precedente:

1. è possibile possedere nella fase iniziale i valori di tutte le variabili per poter definire a cascata i blocchi successivi?

2. osservando i progettisti mentre progettano, emerge che si comportino con prevede il modello lineare? La progettazione è anche un processo creativo, come evolve il modello lineare permette e accompagna processi creativi?

La prima domanda potrebbe essere tradotta dicendo che la conoscenza che il progettista ha del contesto evolve mentre progetta, poiché, mentre avanza nel lavoro e in base a esso, emerge l’esigenza di conoscere ad esempio cosa sanno gli studenti su specifici temi, che conoscenze e aspettative hanno, quali risorse sono disponibili per il percorso.

Tra i modelli che utilizzano i processi ricorsivi e circolari vi è il Rapid prototyping proposto Tripp e Bichelmeyer (1990) e ripreso da  Botturi, Cantoni, Lepori e Tardini (2007) con ELAB. Si realizza un primo artefatto progettuale, un prototipo, che si sperimenta prima sulla carta con simulazioni, poi, quando l’artefatto sembra più affidabile, in situazioni controllate. Ogni sperimentazione permette di evidenziare i pro e i contro, perfezionando così l’artefatto e il processo. In base agli esiti delle sperimentazioni si rifinisce l’artefatto, si ricercano ulteriori dati e informazioni relative al contesto fino ad arrivare a uno risultato soddisfacente. Chiaramente la creazione di prototipi e la loro sperimentazione in situazioni controllate non è possibile per il docente della scuola che ha per progettare tempi ridottissimi a ridosso dell’azione.

Un modello che tiene conto del processo ricorsivo e di tempi sostenibili per il docente è FBS di Gero. La sua proposta prevede, dopo la prima idea progettuale, una simulazione mentale durante la quale il progettista “mette in atto” il percorso e analizza quello che potrebbe succedere, come reagiscono gli studenti, le loro reazioni e i problemi cognitivi, emotivi e senso-motori che potrebbero emergere. Il docente ha in mente un modello della classe costituito dalle relazioni che intercorrono tra gli studenti e con i docenti. Nel 1990 Gero propone Function, Behavior, Structure (Gero, 1990), un modello che distingue tre componenti dell’artefatto: le sue finalità (Function), i comportamenti specifici che permettono la realizzazione delle finalità (ad esempio gli obiettivi - Behavior) e la struttura dell’artefatto (Structure). Era prevista una fase in cui si verificava con una simulazione mentale se il progetto permettesse di raggiungere i risultati previsti. Nel 2002 Gero migliora il suo modello e lo definisce come situato: siamo nel periodo in cui tutti parlano di complessità e di “situadness” avevano parlato Brown, Collins, e Duguid (1989) e Lave e Wenger (1990). In un articolo che introduce FBS modificato gli autori affermano:

Possiamo parlare di un processo ricorsivo, “un’interazione tra il fare e il comprendere”. Questa interazione tra il progettista e l’ambiente determina il processo di progettazione. Questa idea è chiamata “situadness”, i cui concetti fondazionali si possono far risalire a Dewey e Barlett (Gero, Kannengiesser, 2002, p. 91).

Interessante il riferimento a Dewey e Barlett, visti come ispirazione anche per settori non educativi. L’idea di progettare e il suo ruolo cambiano. Più che un processo necessario per definire cosa deve fare il progettista, la progettazione diviene per Gero un’interazione sia tra fare e comprendere, sia tra progettista e mondo, il che richiama modelli enattivi e le relazioni tra azione e comprensione proposta da Varela. I modelli di Gero sono stati pensati per la progettazione industriale e per analizzare i processi creativi. Va sottolineato anche che gli anni più recenti, per effetto delle ricerche neuroscientifiche e dell’embodiment, abbiamo ulteriormente modificato il significato di learning by doing di Dewey. Se nel modello iniziale, ripreso poi in molti percorsi dell’attivismo americano e europeo e non ultimi dal cognitive apprenticeship di Collins, Brown e Newman (1988), il rapporto è tra il fare e il conoscere, oggi il rapporto è tra azione, del singolo e anche di altri grazie ai neuroni specchio, e corpo nel suo complesso e nelle modellizzazioni incorporate che ne derivano.

MRK

Il modello proposto da Morrison, Ross, Kalman, and Kemp (MRK), la cui prima edizione fu pubblicata nel 1981, è un esempio di modello “curvilineo” secondo lo schema di Gustavson. Il modello (Kemp et al., 2011) contrasta con la modalità classica dell’ID e inizia ponendo le seguenti domande:

1. What level of readiness do individual students need for accomplishing the objectives?

2. What instructional strategies are most appropriate in

terms of objectives and student characteristics?

3. What technology or other resources are most suitable?

4. What support is needed for successful learning?

5. How is achievement of objectives measured?

6. What revisions are necessary if a tryout of the program does not match expectations? (p. 6)

 

1. Di quale livello di preparazione hanno bisogno i singoli studenti per raggiungere gli obiettivi?

2. Quali strategie didattiche sono più appropriate in termini di obiettivi e caratteristiche dello studente?

3. Quale tecnologia o altre risorse sono più adatte?

4. Quale supporto è necessario per un apprendimento di successo?

5. Come viene misurato il raggiungimento degli obiettivi?

6. Quali revisioni sono necessarie se una prova del programma non corrisponde alle aspettative? (p. 6)

In base alle risposte che fanno emergere come il docente si approccia alla progettazione vengono proposte altre quattro domande:

1. For whom is the program developed? (learners)

2. What do you want the learners or trainees to learn or demonstrate? (objectives)

3. How is the subject content or skill best learned? (methods)

4. How do you determine the extent to which learning is achieved? (evaluation)

1. Per chi è sviluppato il programma? (studenti)

2. Cosa vuoi che gli studenti o gli allievi imparino o dimostrino? (obiettivi)

3. Qual è il modo migliore per apprendere il contenuto o l'abilità della materia? (metodi)

4. Come si determina la misura in cui si ottiene l'apprendimento? (valutazione)

La struttura ovale indica che

l'insegnante / progettista può iniziare ovunque e procedere in qualsiasi ordine. Questa è essenzialmente una visione del sistema generale dello sviluppo in cui tutti gli elementi sono interdipendenti e possono essere eseguiti indipendentemente o simultaneamente a seconda dei casi.

Sebbene il modello Morrison, Ross, Kalman e Kemp indichi che lo sviluppatore può iniziare ovunque, nella loro narrazione viene presentato in un quadro convenzionale che inizia con argomenti, compiti e scopi. L'orientamento in classe del modello è evidente attraverso la scelta delle parole, degli argomenti e del contenuto della materia per determinare ciò che verrà insegnato. Dal punto di vista dell'insegnante, la forza di questo modello è il concetto di iniziare "da dove sei". Inoltre, l'enfasi sul contenuto della materia, sugli obiettivi e sugli scopi e sulla selezione delle risorse lo rende attraente per gli insegnanti.

Questo modello non solo è uno dei pochi che continua a subire modifiche nel tempo, ma è anche praticato dai docenti di tutti i livelli di scuola nelle pratiche quotidiane.


Figura 4 - MRK model

1.4 Quali sono gli elementi da cui partire per la progettazione

Il quarto elemento, che differenzia i vari modelli e che si è modificato nel tempo dagli anni 70 ad oggi, analizza come individuare il punto da dove iniziare la progettazione. In parte il problema si connette a quello analizzato nel passaggio precedente: una progettazione ricorsiva modifica il punto di partenza, anche per il solo fatto di prevedere ripartenze.

Decidere da dove partire è un problema emerso fin dagli anni ’80 del secolo scorso quando si è posto il problema se partire dagli obiettivi o dall’analisi dei bisogni. Gagnè inserisce nel blocco iniziale la definizione degli obiettivi, e, in base ad essi, definisce il percorso successivo; Dick, Carey e Carey, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1978, iniziano dai bisogni degli studenti e del contesto e AASURE, la cui prima versione risale al 1992, dalle caratteristiche degli studenti.

In Italia nel 1983 esce per i tipi della SEI “Progettazione didattica” di Michele Pellerey, un testo utilissimo per i docenti di quel tempo, ma ancora attualissimo perché coglie in profondità i problemi didattici. Già nella premessa dopo aver descritto i filoni di ricerca che portano alla progettazione, i curriculum studies, le analisi del comportamento e l’Educational Technologies, sottolinea il pericolo che si potrebbe correre nello strutturare i modelli progettuali: “L'elaborazione di modelli sempre più astratti e formali, privi quindi di contenuti reali e lontani dalla prassi educativa”; “la priorità data alla operazionalizzazione tecnologica con rischio di una progressiva disumanizzazione del rapporto educativo; lo sviluppo di un tecnicismo fine a se stesso che di fatto può rinforzare sia il burocratismo, sia prassi didattiche scadenti” (11).  

Le pagine in cui si percepisce il forte legame dell’autore, non solo con i contesti di ricerca internazionale, ma anche con la scuola militante sono quelle che indica da dove partire per progettare. Il percorso spesso descritto per la progettazione che dalle finalità passa a definire, prima, gli obiettivi educativi, poi gli obiettivi didattici, per infine definire e articolare contenuti, metodi e strumenti

appare ai più artificioso e produttivo solo se portato a termine in un periodo di tempo assai lungo e con competenze già a buon livello di sviluppo. Ma ciò non è possibile fare quando si è impegnati nell’azione didattica quotidiana e si è ancora un po’ disarmati tecnologicamente. Meglio partire dalle esperienze didattiche già conosciute e farla espandere per così dire all'interno fino a configurarle in vere e proprie unità didattiche correttamente strutturate.

La critica alla artificiosità e, diremmo noi, la non sostenibilità sembra trasferibile facilmente a molte proposte oggi presenti “sul mercato” in Italia. Così come ci sembra trasferibile il suggerimento di partire da esperienze di apprendimento, più che da semplici contenuti. Le esperienze e le attività didattiche emergono dalle prassi condivise tra docenti, dai libri di testo, dall’esperienza personale e dalla ricerca. La proposta tiene conto in modo olistico di vari fattori e, soprattutto, descrive bene le modalità operative dei docenti.

È questa una costante del modo di agire dei docenti che si è mantenuta nel tempo: il punto di partenza è differente in differenti situazioni e, spesso, l’input si intreccia anche con altri fattori che vanno ad affiancarsi al primo, così che, difficilmente, emerge un input unico e sempre determinante per ogni percorso.

Si parte dall’argomento proposto nel testo, dall’obiettivo presente nelle Indicazioni o nel curricolo, da una domanda di uno studente, da un errore ripetuto nella classe, da una proposta esterna, da una risorsa divenuta disponibile. Le scintille da cui partire possono essere molte, ma poi occorre tenerle presenti e ricorsivamente prendere in considerazione.

2 Come si decide: modello prescrittivo e modello situato

Affrontiamo ora il problema centrale della progettazione didattica: quali sono i processi che il docente mette in atto per decidere il percorso da effettuare? La parola chiave è sicuramente decisione che nel tempo assume significati differenti in quanto è connessa con professionalità. Se cambia la professionalità docente, come sta avvenendo in questa fase storica, cambiano il modo di decidere, le responsabilità e i modi di agire.

Le analisi precedenti e i cinque elementi considerati (complessità, prescrittività, ricorsività, certezza e professionalità) anche se analizzato separatamente sono tra loro fortemente legati. La complessità impatta con la presenza di molti input, la ricorsività con l’incertezza dei valori da assegnare ai singoli indicatori. Da questi cinque elementi, cambiati nel tempo per effetto delle trasformazioni socio-culturali, emergono due modelli che possiamo descrivere come contrapposti che descrivono i processi decisionali messi in atto durante la progettazione didattica. I due modelli possono essere collocati agli estremi di una linea e tra i due estremi sono presenti tante posizioni intermedie che prevedono modalità di lavoro miste. A un estremo collochiamo il modello prescrittivo, che potremmo descrivere come top down, e all’altro il modello situato che potremmo descrivere come ricorsivo e sistemico.

2.1 Modello prescrittivo

Il modello prescrittivo si basa su regole/principi e linee guida che guidano il progettista nei vari passaggi. Applicando tali regole/principi il progettista ha un’alta probabilità di predisporre un percorso valido ed efficace. Chiaramente anche gli autori che propongono un modello prescrittivo non sottovalutano la presenza dell’evento, tipica delle scienze umane, e pertanto parlano di probabilità

Tale modello è adatto a situazioni a bassa complessità, dove sono possibili processi lineari e dove,  ad esempio, a partire dagli obiettivi, nei quali sono compresi anche aspetti disciplinari, si delinea il processo seguendo indicazioni precise per i vari passaggi. Il percorso attuato è a waterflow e per passare da uno step al successivo le regole/principi forniscono le indicazioni per architettare il processo. La valutazione del singolo processo è data dal rispetto delle indicazioni progettuali. In questo modello le scelte vengono prese man mano che il processo avanza: si individuano gli obiettivi, poi i vari dispositivi, poi i processi. Forse non è corretto parlare di decisione in relazione a questo percorso in quanto le proposte  sono guidate in modo prescrittivo da dettami progettuali e non implicano un intervento “soggettivo” del docente. La revisione del modello, la fase Evaluate, avviene dopo la sua sperimentazione nel campo ed è un feedback esterno al processo progettuale. Non avviene in base a una riflessione del progettista, ma è esterna all’azione progettuale e permette di revisionare il modello dopo la sua applicazione. Poiché le scelte vengono attuate in ogni step e derivano dagli elementi specifici da definire in quel dato step, la visione di insieme e la coerenza del progetto è data dalla correttezza dei singoli passaggi, seguendo un modello riduzionista in cui la correttezza delle parti garantisce la validità del progetto.

Il modello di Gagnè è un prototipo di tale modello. Stesso discorso può valere per la progettazione per obiettivi.

2.2 Modello situato e sistemico

Il modello situato parte dal presupposto che i fili da intrecciare sono molteplici e che la trama finale è connessa alle modalità con cui tali fili sono intrecciati. Tutto ciò dipende dal contesto specifico, dal qui ed ora. La decisione, che il progettista deve prendere per definire il progetto, si focalizza sulla rete di relazioni tra gli stessi, in base al dialogo tra progettista e contesto, e sull’equilibrio da costruire tra i singoli elementi nel progetto finale, dipende dal sistema più che dagli elementi.

Come descritto quando si è parlato di terzi spazi, il progettista si trova a operare tra diverse dimensioni che viaggiano parallele. Tali dimensioni non hanno connessioni predeterminate e valide in assoluto. Il progetto le fa dialogare e deve costruire un’equilibrazione tra le stesse. La decisione è presa in base all’equilibrio globale della struttura e in tal senso possiamo parlare di visione sistemica. Il modello prevede l’alternanza tra immersione, in cui si prefigura il percorso, e il distanziamento, in cui si esaminano i processi e se ne valuta la coerenza interna ed esterna. Se nell’immersione si prendono in considerazione vari input, la decisione si concretizza nel momento del distanziamento in cui grazie a processi riflessivi e alla simulazione mentale si valuta se il percorso progettato possa funzionare e sia sostenibile. Tale fase è interna alla progettazione e si ripete ricorsivamente in quanto è difficile che il primo percorso pensato non necessito di interventi più o meno radicali.

La valutazione, necessaria per prendere decisioni, in questo caso è parte essenziale del percorso progettuale e consiste nell’analizzare la coerenza interna ed esterna del percorso proposto, la sua sostenibilità, la sua valenza sistemica.

Si cercherà ora di dettagliare i vari momenti e, soprattutto, quali dispositivi possano garantire la riflessione e la decisione.

2.2.1 Il modello Gero 

Un modello che contiene in modo esplicito la valutazione e la decisione come elementi interni del processo progettuale è il modello FBS di Gero, già descritto per alcuni aspetti precedentemente. Nasce nell’industrial design e ha il seguente schema:

Prevede la formalizzazione delle Funzioni (F) e dei Comportamenti desiderati (Be) in base ai quali si prefigura la Struttura/percorso (S). Attraverso una Simulazione mentale si vede cosa potrebbe succedere quando il percorso viene messo in atto, ovvero quali Situazioni si presentano (Bs). A questo punto vi è la fase della Decisione (processo 4) durante la quale prima si confrontano le Situazioni finali desiderate con le Situazioni finali che si prevede di ottenere con il percorso realizzato e poi si valuta se le differenze tra le due soluzioni sono accettabili o sia necessario rivedere tutto il processo, ovvero le Funzioni (processo 8), I comportamenti (processo 7), la struttura (processo 6) per poi arrivare a una nuova proposta di Struttura. Il percorso si ripete in modo ricorsivo.

Al cuore del processo vi è dunque il processo 4 in cui, grazie a una simulazione mentale, il progettista confronta i risultati attesi con i risultati raggiungibili in base alla struttura progettata e decide se accontentarsi del risultato ottenuto o riiniziare il processo revisionando quanto fatto.

La presa di decisione si concentra in questa fase e la valutazione diviene uno dei processi interni al percorso.

 Nei due modelli (A e B) il concetto di decisione è differente, così come si modifica il concetto di valutazione, interno al processo in B, esterno in A. Il modello B a nostro parere meglio si adatta al livello di complessità del contesto attuale e della scuola. Richiede professionalità capaci di dialogare con i contesti e di decidere in situazione.

Anche Berthoz (2003) connette decisione a simulazione grazie a studi in ambito neuro-scientifico. Per Berthoz la decisione è simulazione dell’azione (ivi, 12).

“La decisione non è solo ragione (raison), essa è anche azione. Non è un puro processo intellettuale, un gioco logico che è possibile tradurre in un’equazione. Una decisione implica sicuramente una riflessione, ma essa porta già in sé stessa integrandoli gli elementi del passato, l’atto sul quale essa si sblocca” (idem). La decisione prevede un’anticipazione del futuro, “una predizione, una certa capacità di predire le conseguenze delle azioni di risposta a delle perturbazioni e d’adattamento della risposta alle condizioni dell’ambiente” (ivi, 343). E tutto ciò richiede di simulare l’azione in base al modello di ambiente.

La decisione segue un processo differente nei casi in cui la scelta è tra un numero limitato di possibili comportamenti, dove è possibile attivare processi di stimolo-risposta e modalità operative meccaniche, dalle situazioni complesse in cui la decisione permette “di elaborare strategie e non solo selezionare dei comportamenti” (ivi, 344). In questo secondo caso la decisione è frutto dell’interazione tra differenti componenti cerebrali che si sono sviluppate in sintonia e operano “in ragione di un principio di armonia e d’equilibrio” (idem). Il salto assegna all’azione un ruolo differente. Non è solo rispondere a una situazione problematica, ma delineare un mondo e tentare di costruirlo. Le scienze della progettazione hanno la finalità di modificare il mondo, così come oggi la relazione interattiva tra natura e cultura assegna all’agire umano un ruolo attivo e politico, come affermano i teorici del post-costruttivismo.

Le due situazioni e le due modalità operative si basano su due concezioni diametralmente opposte del cervello umano: “la concezione detta “rappresentazionale”  che vorrebbe che il cervello costruisse un’immagine del mondo che guida l’azione; e la concezione di un cervello che è una parte del mondo, che ne ha internalizzato le proprietà e ne emula alcune, ma li rapporta ai suoi propri scopi che operano la realtà esterna proiettandone le proprie percezioni, i propri desideri, le proprie intenzioni” (ivi, 345). In tal modo interagisce con contesto e crea dei mondi.

Anche Gallese, sempre a partire dagli studi in ambito neuroscientifico, assegna un ruolo importante alla simulazione nella cognizione sociale e parla di simulazione incorporata.

2.2.1 Il modello Gero 

Un modello di progettazione per la didattica: il modello FVP


La proposta di Gero è stata adattata al mondo della scuola (Rossi & Toppano, 2009) ed è stato proposto il modello FVP.


Prima di descrivere il modello occorre fornire alcuni dati emersi da una ricerca su come progettano gli insegnanti realizzata chiedendo ai docenti di esplicitare le loro modalità di lavoro per progettare. Il quadro che emerge, leggendo oltre duecento risposte, mostra una situazione in cui sono presenti alcuni livelli tra loro autonomi collocati a distanze differenti dal docente, più o meno lontani, nello spazio della progettazione, come fossero piani trasparenti che non hanno relazioni tra di loro,  ma che dialogano nella mente del docente.

Nel piano più vicino sono presenti eventi avvenuti nel contesto della classe oggi e qui: comportamenti di studenti, errori ripetuti, situazioni critiche interne o esterne alla scuola. Nel piano successivo sono descritti i materiali e i supporti di cui può fruire il docente: quanto propone il testo, le risorse della scuola o della rete, i supporti che può trovare nell’ambiente. Il piano ancora più distante propone le tematiche connesse a quelle trattate secondo una struttura disciplinare, gli obiettivi pensati a breve, i nodi da affrontare nel medio periodo, le sue esperienze didattiche negli anni precedenti in relazione al tema trattato o da trattare. Infine, come in uno sfondo, il docente fa riferimento alle Indicazioni nazionali, al curricolo di istituto, ai documenti di riferimento della scuola. Nessuno di tali piani dipende in modo meccanico dagli altri e nessuno di tali piani impone in modo deterministico l’azione al docente. Il docente si muove tra i vari piani come se giocasse con un cubo di Kubric facendo in modo di costruire una struttura equilibrata e coerente che tenga conto di tutti i piani che trova nel suo spazio di progettazione.

 

In base a tutto ciò immagina un percorso, immersione, e poi si pensa a cosa succederà in classe quando lo attuerà, simula il percorso progettato nel suo modello di classe, effettua una simulazione mentale. Questa seconda fase può essere descritta come un’alternanza di immersione, mentre simula, e distanziamento, mentre osserva come evolve il sistema. È un processo inconsapevole e meccanico: difficilmente il docente decide di simulare, è incarnato nel suo modo di pensare la progettazione come azione. Si chiede quale reazione possano avere i singoli o il gruppo sia a livello cognitivo, sia emotivo in elazione agli argomenti trattati, dove incontreranno difficoltà o dove i passaggi saranno tanto scontati da annoiarli, quanto durerà l’attenzione e come si articolerà nel tempo. Emerge immediatamente l’importanza di simulare l’azione e come la decisione sia una azione simulata. La valutazione non è determinata dall’efficacia della singola strategia o attività, non dipende solo da come è collocata nella scala di Hattie. Una stessa attività in momenti diversi della giornata può avere più o meno successo e la valutazione non dipende solo dall’efficacia in relazione all’apprendimento, ma dall’equilibrio complessivo del percorso, dal modo con cui l’attività è in sintonia con il regime ondulatorio dell’attenzione e tiene conto delle conoscenze specifiche e degli interessi e motivazioni del gruppo classe. Cosicché il successo di un percorso è dovuto a un canto che in una certa fase della giornata ha permesso una pausa rigenerativa, così come da un feedback fornito nel momento opportuno. 

Il modello presentato si discosta in parte dal modello di Gero in quanto le due fasi iniziali, l’analisi delle funzioni e l’analisi dei comportamenti, in Gero sono in successione. Nel modello che proponiamo sono invece presenti ma autonome e non in successione differenti input. Il dibattito degli ultimi anni ha superato la relazione di causa effetto tra fini e mezzi e come detto nel progettare dei docenti vi sono differenti piani presenti, che però non agiscono meccanicamente gli uni sugli altri. Alcuni intervengono nel pensare l’idea iniziale, che spesso parte da una domanda o dal suggerimento del testo o da un materiale presente, altri intervengono in una fase successiva quando si valuta la coerenza del percorso con il senso interno e con i riferimenti esterni: come il percorso di oggi si connette con il percorso annuale? Come gli obiettivi e le acquisizioni di oggi si muovono nell’ottica delle competenze e obiettivi annuali? Altre volte lo sguardo lungo suggerisce un’attività la cui sostenibilità e attuabilità viene valutata in base alle risorse presenti e ai tempi a disposizione.

Le linee guida condivise da molti autori

Pur essendo i modelli A  e B diversi e adatti a contesti diversi possono supportare il lavoro del docente mentre progetta anche se in modo differente.

I modelli per progettare possono indicare il processo mentale che il docente dovrebbe seguire o proporre dei suggerimenti relativi all’artefatto progettuale. A questa seconda categoria appartengono, ad esempio, i nove eventi di Gagnè e i cinque principi di Merril. Anche se le indicazioni di questi modelli non può guidare in modo prescrittivo il docente possono fornire delle indicazioni su come approcciare la progettazione. Dalla lettura dei modelli che suggeriscono alcune caratteristiche dell’artefatto emerge che tra di essi ci sono molti punti di contatto che ora sottolineeremo. Prenderemo come riferimenti non solo Gagnè, Merril e Hattie, ma anche Laurillard.

Il primo suggerimento è tener conto delle conoscenze pregresse degli studenti. Gagnè afferma: “Ricordare agli studenti i contenuti già appresi, per coinvolgere la memoria a lungo termine”, Merril “Learning is promoted when learners activate relevant prior knowledge or experience”, Laurillard parla della strategia del ponte.

Un secondo suggerimento è attivare lo studente. Merril sottolinea che l’apprendimento è favorito se  gli studenti “Osservano un sperimentano” (primno principio), “Applicano una nuova conoscenza” (secondo principio) e “Sono coinvolti in una strategia basata su compiti” (terzo principio). Gagnè invita Eliciting performance favorendo la creazione di risposte da parte dello studente. Precedentemente Dewey proponeva come elemento fondante della sua prospettiva il Learning by doing e l’approccio attivista prima e quello costruttivista poi facevano dell’attività dello studente l’asse portante della loro proposta. Chiaramente non è possibile assegnare al termine “attività” in Merril e nei teorici del costruttivismo lo stesso significato in quanto profondamente differente è l’autonomia dello studente, applicazione di una procedura in un caso, scoperta nell’altro

Altro principio è il feedback: Hattie descrive il feedback come una delle strategie a più alto xxxx, Gagnè invita a “Fornire un feedback riguardo alle azioni” (settimo elemento) e Laurillard sottolinea l’importanza del feedback, sia implicita che esplicito per l’apprendimento. Evidenzia anche come le tecnologie permettono di attivare efficaci feedback impliciti che evitando una presenza attiva del docente permettono di avviare processi di autovalutazione e trasformazione.

Un altro elemento trasversale a molti autori è la condivisione degli obiettivi con gli studenti e, dove possibile, la co-progettazione. Per Gagnè è importante “Informare lo studente sull’obiettivo formativo, per stabilire le giuste aspettative”, Laurillard riprende xxxxx  e invita a condividere e discutere il processo prima di attuarlo con gli studenti, per Seidel e Sturmer l’analisi di come l’insegnante informa lo studente sul percorso è un elemento rilevante della professionalità docente.

Il fatto di ritrovare simili “principi” in vari autori ne sottolinea l’importanza. Merril afferma che i suoi principi siano stati individuati confrontando molte teorie e siano validi a prescindere dall’approccio teorico.

Tale affermazione ci fa venire un certo prurito. Crediamo infatti che spesso siano presenti tangenze linguistiche che però non sempre descrivono analogie profonde a livello di significato. Si è detto prima del diverso significato che assegnano a “attivare gli studenti” cognitivisti e costruttivisti: avvio di procedure date, per i primi, scelta di procedure, per i secondi. Laurillard evidenzia come ancora non ci sia una forte concordanza tra vari autori, che l’unico autore che presente in molti manuali è Vygotskij, e che comunque esistono alcuni punti di contatto tra ricercatori che appartengono a prospettive teoriche differenti (2014, 93). Elenca i seguenti punti:

-          allineare gli obiettivi dell’insegnante a quelli del discente;

-          assegnare obiettivi di lavoro che usino concetti e azioni alla portata del discente;

-          chiarire la struttura dei concetti per supportare l’organizzazione della conoscenza;

-          costruire un ambiente adeguato per il lavoro;

-          controllare le azioni dei discenti e l’esposizione dei loro concetti;

-          fornire feedback significativi (idem) .

Come si vede ritornano le precedenti indicazioni.

3 Una sintesi

Il contesto attuale oggi richiede che la progettazione elabori “strategie e non solo selezionare dei comportamenti” (Berthoz, 2003, xxx) e al progettista di essere un professionista che costruisce percorsi adatti al contesto e capaci di intrecciare tra loro più fili, come mostreremo nel prossimo capitolo. In tale direzione non sono possibili regole prescrittive che precisino le relazioni tra i componenti dell’artefatto. Esistono dalla letteratura alcune linee guida da tener presente, come l’elenco proposto dalla Laurillard dimostra, ma non possono essere adottate in modo prescrittivo.

Il processo di progettazione prevede invece la capacità di elaborare un percorso situato centrato sull’azione. La qualità del percorso non è dettate da regole esterne o dalla presenza di specifici componenti, ma dalla coerenza interna ed esterna del sistema e dalla sostenibilità dello stesso.

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