La ragione pratica
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da "Dal testo all'azione" Ricoeur P. (1989) Milano. (ed. or. 1986)
fini e mezzi
Allo stesso tempo il ragionamento
pratico, che con Aristotele avevamo confinato nel campo della deliberazione sui
mezzi, sconfina ora in
quello dei fini. Non si tratta più solo di mettere in ordine una
catena di mezzi, o un albero di opzioni, in una strategia. Si tratta ora di
argomentare sulle stesse premesse maggiori del sillogismo pratico (se si
conserva questo termine per ragioni didattiche nonostante il suo carattere
criticabile dal punto di vista logico). Questa differenza tra la deliberazione
sui fini e la deliberazione sui mezzi si spiega facilmente: una riflessione sui
fini presenta, il rapporto all'azione, un nuovo tipo di distanza; non si tratta
più, come prima della distanza tra un carattere di desiderabilità e una certa
azione da compiere, distanza che soddisfa appunto il ragionamento pratico di
tipo strategico: è una distanza propriamente riflessiva, che apre un nuovo
spazio dove si affrontano delle pretese normative opposte, normative tra le
quali la ragione pratica opera come giudice e arbitro, ponendo termine al
dibattito attraverso delle decisioni assimilabili a sentenze giuridiche.
I. I concetti di ragione d’agire e di ragionamento pratico.
(229) Ho cercato di costruire per gradi un concetto di
reazione pratica che rispondesse a queste due esigenze: da un lato, meritare di
essere chiamata ragione, dall'altro, conservare dei caratteri irriducibili alla
razionalità tecnico scientifica.
(230) Nella teoria dell'azione, il concetto di ragione
pratica si identifica con le condizioni di intelligibilità dell'azione sensata,
intendendo per azione sensata quella di cui un agente può rendere conto ad un
altro o a se stesso, di modo che chi riceve questa giustificazione l'accetta
come intellegibile. L'azione può dunque essere irrazionale secondo altri
criteri che considereremo più avanti: rimane sensata nella misura in cui
incontra le condizioni di accettabilità stabilite da una certa comunità di
linguaggio e di valore.
(231) La teoria dell'azione, quindi, non fa che esplicitare
le condizioni di intelligibilità che appartengono alla semantica spontanea
dell'azione.
la nozione su cui insisteremo a questo livello è quella di
ragione d'agire. Essa si trova implicata nelle risposte che un agente si
riconosce capace di dare alle domande che abbiamo indicato prima. Non discuterò
qui se fornire una ragione d’agire significa escludere ogni spiegazione causale,
almeno nel senso ristretto humiano di antecedente causale.
La nozione di ragione reagire si caratterizza per quattro
aspetti principali.
Anzitutto il concetto ha la stessa estensione del campo di
motivazione. Con ciò non si accorda nessun privilegio alla categoria dei motivi
cosiddetti razionali, in opposizione ai motivi cosiddetti emozionali. A partire
da quando l'azione percepita dalla agente come non costrittiva, un motivo è una
ragione d'agire. Perciò bisogna comprendere che anche un desiderio irrazionale
figura nel gioco di domande di risposte come portatore di ciò che Anscombe
chiama un carattere di desiderabilità. Devo sempre poter dire per che cosa ho
un desiderio. È questa la condizione minimale di intelligibilità dell'azione
sensata. Il campo di motivazione non sarebbe quel campo conflittuale che conosciamo,
sei motivi più eterogenei non si presentassero alla comparazione, e dunque non
potessero essere gerarchizzati in funzione del loro carattere di desiderabilità.
Come infatti una linea d'azione sarebbe preferibile ad un'altra se non si
potesse dire perché cose l'una sembrerebbe più desiderabili dell'altra?
A loro volta questi caratteri di desiderabilità, da quando
sono sottomessi all'esame, sono suscettibili di essere esplicitati in termini
di motivi che presentano un certo tipo di generalità. Per questo secondo
aspetto una ragione d'agire permette di spiegare l'azione, in un senso della
parola spiegare che significa collocare un'azione singolare all'interno di una
classe di disposizioni che presentano un carattere di generalità. In altri
termini, spiegare e interpretare questa azione come esempio di tale classe di
disposizioni.
il terzo aspetto, a sua volta, deriva dallo sviluppo del
concetto di disposizione implicato nella nozione di classe di motivi. La
spiegazione in termini di disposizione è una specie della spiegazione causale.
Ma il tipo di causalità che qui viene invocato non è la causalità lineare, che
va dall' antecedente al conseguente ma la causalità teleologica che, secondo Charles
Taylor, si definisce senza ricorrere ad alcuna entità nascosta del tipo virtù
dormitiva, ma per la sola forma della legge addotta. La spiegazione teleologica è una spiegazione nella
quale la configurazione globale degli eventi è essa stessa un fattore della
propria produzione. Direi che un evento accade perché è intenzionalmente
prospettato, significa dire che le condizioni che si producono sono quelle che,
facendo parte del nostro repertorio di saper fare sono chiamate, richieste e
scelte per produrre l'esito a cui si mira. O, per citare Taylor, la spiegazione
teleologica è quella nella quale la condizione perché appaia l'evento è che si
realizzi uno stato di cose tale da condurre all'esito in questione oh tale da
richiedere questo evento per ottenere questo esito. (…) La nostra analisi non può né alcuna cesura
tra desiderio e ragione, ma trae dal desiderio stesso, quando esso arriva alla sfera
del linguaggio le condizioni stesse di esercizio della ragione deliberante. l'equivalente
moderno della nozione aristotelica di desiderio deliberativo si trova così nei
tre aspetti con i quali abbiamo caratterizzato la nozione di ragione di agire: il
carattere di desiderabilità, la descrizione del motivo come stile
interpretativo infine la struttura teleologica di ogni spiegazione in termini
di disposizione.
Questi tre aspetti ora possono servirci da base per introdurre
un quarto, dal carattere meno semantico che sintattico. Questo aspetto ci fa
passare dalla nozione di ragione d'agire a quella di ragionamento pratico. Ci
avvicina un po’ di più al più ricco concetto di ragione pratica che, dire il
vero, implica altri elementi che non appartengono più alla teoria dell'azione.
Il modo migliore per introdurre il concetto di ragionamento
pratico è sottolineare un aspetto della nozione di ragione d’agire che non è
stato ancora sottolineato, poiché abbiamo identificato la ragione d’agire con
la categoria dei motivi di carattere tanto retrospettivo quanto interpretativo.
Ora vi sono delle ragioni d'agire che concernono più l'intenzione nella quale
facciamo qualcosa che il carattere retrospettivamente intenzionale di un'azione
compiuta che noi vogliamo spiegare giustificare o scusare. Il carattere
specifico dell'intenzione presa nel senso di intenzione nella quale è quella di
instaurare tra due o più azioni un concatenamento di carattere sintattico che
si esprime in espressioni del tipo: “fare questo in modo che quello” o
invertendo “per ottenere quello fare questo”, tale connessione tra due
proposizioni pratiche si presta concatenamenti di lunghezza variabile. Spiegare tale intenzione
complessa equivale a mettere un certo ordine tra queste proposizioni pratiche.
Qui interviene il ragionamento pratico, l’erede del sillogismo pratico di
Aristotele. Ma preferisco parlare di ragionamento pratico per lasciare da parte
tutti i tentativi, messi in campo anche da Aristotele stesso, volti a stabilire
uno stretto parallelismo tra questo ragionamento e il sillogismo della ragione
speculativa. La combinazione tra una premessa maggiore sedicente universale e
una minore che asserisce singolarità e una combinazione troppo insolita e
propriamente mostruosa dal punto di vista formale perché possa essere mantenuto
un parallelismo con il sillogismo speculativo. Il ragionamento appare difettoso
nei suoi due estremi: la maggiore è implausibile e propriamente insensata in
rapporto alle regole di accettabilità tacite o espresse, che appartengono alla
semantica dell'azione.
Quanto alla conclusione, essa non ha nulla di costruttivo il
rapporto all'azione e quindi non conclude, malgrado la singolarità addotta, ad
un fare effettivo. La sintassi del ragionamento pratico che appare come la più
omogenea i tratti della semantica dell'azione che abbiamo prima indicato, è ciò
che si appoggia precisamente sulla nozione di ragione d’agire nel senso di
intenzione con la quale si fa qualcosa. L'idea di un ordine di ragioni d'agire
è la chiave del ragionamento pratico. Esso non ha altra funzione che mettere in
ordine le lunghe catene di ragioni suscitate dall'intenzione finale. Il ragionamento
parte da una ragione d’agire ritenuta ultima, cioè in grado di esaurire la
serie dei perché, in altri termini parte da un carattere di desiderabilità, nel
senso più ampio del termine che include altrettanto bene il desiderio di fare
il proprio dovere. È questo carattere di desiderabilità che ordina regressivamente
la serie di mezzi individuati per soddisfarlo. Si ritrovano qui le parole di
Aristotele: si decide solo sui mezzi. Ciò che richiede alla fine questa messa
in ordine è la distanza tra il carattere di desiderabilità e l'azione singolare.
Quando viene posta intenzionalmente questa distanza, in ragionamento pratico
consiste nell’ordinare in una strategia la catena dei mezzi.
(…)
II. Il concetto di “regola d’azione”
(235) Trasposta nella teoria dell'azione, la nozione di
codice implica che l'azione sensata, in una maniera o nell'altra, è governato da
regole. (…)
(236) Il senso dipende dal sistema di convenzioni che
assegna un senso ad ogni gesto in una situazione essa stessa delimitata da
questo sistema di convenzioni. Si può parlare di mediazione simbolica
per sottolineare il carattere immediatamente pubblico e non solo
dell'espressione dei desideri individuali ma anche la codificazione dell'azione
sociale nella quale trova posto l'azione individuale. Questi simboli sono
entità culturali e non più solamente psicologiche. Inoltre essi entrano nei
sistemi articolati e strutturati in virtù dei quali i simboli, isolatamente presi,
significano reciprocamente, sia che si tratti di segnali di circolazione, di
regole di comportamento, o dei sistemi istituzionali più complessi più stabili.
Geertz Parla di sistemi di simboli in interazione virgola di modelli di
significazioni si energetiche.
Introducendo così la nozione di norma o di regola, non
poniamo l'accento necessariamente sul carattere costruttivo oh repressivo che
alcuni le attribuiscono. È nei termini di, in funzione di … tale regola
simbolica, che possiamo interpretare questo comportamento come significante. (…)
Tuttavia prima di costringere, le norme danno ordine all'azione nel senso che
la configurano dandole forma e senso (…).
(237) Essi conferiscono all'azione una certa leggibilità che,
a sua volta, può eventualmente dar luogo ad una qualche scrittura nel senso
proprio del termine ad una etnografia, dove la tessitura dell'azione è trasposta
in testo culturale.
Allo stesso tempo il ragionamento
pratico, che con Aristotele avevamo confinato nel campo della deliberazione sui
mezzi, sconfina ora in
quello dei fini. Non si tratta più solo di mettere in ordine una
catena di mezzi, o un albero di opzioni, in una strategia. Si tratta ora di
argomentare sulle stesse premesse maggiori del sillogismo pratico (se si
conserva questo termine per ragioni didattiche nonostante il suo carattere
criticabile dal punto di vista logico). Questa differenza tra la deliberazione
sui fini e la deliberazione sui mezzi si spiega facilmente: una riflessione sui
fini presenta, il rapporto all'azione, un nuovo tipo di distanza; non si tratta
più, come prima della distanza tra un carattere di desiderabilità e una certa
azione da compiere, distanza che soddisfa appunto il ragionamento pratico di
tipo strategico: è una distanza propriamente riflessiva, che apre un nuovo
spazio dove si affrontano delle pretese normative opposte, normative tra le
quali la ragione pratica opera come giudice e arbitro, ponendo termine al
dibattito attraverso delle decisioni assimilabili a sentenze giuridiche.
III. Il momento kantiano
Anzitutto è stato Kant, e non Aristotele, a porre al centro
della problematica pratica il problema della libertà.
(240) (è un concetto problematico). Problematizzarlo equivale
a mostrare che è problematico. A questa condizione, e solo a questa condizione,
la libertà è un'idea della ragione e non dell'intelletto. Per estensione, tutta
la problematica ulteriore merita di essere collegata sotto la designazione di
ragione pratica. Questa rottura epistemologica tra ragionamento pratico e
ragion pratica e l'autentica svolta di tutta l'analisi.
In terzo luogo dobbiamo a Kant il fatto di essere riusciti a
concepire la ragion pratica come la reciproca determinazione dell'idea di
libertà e dell'idea di legge. Pensare insieme legge e libertà è l'oggetto
stesso dell'analitica della critica della ragion pratica. Il concetto di ragion
pratica assume qui la sua colorazione propriamente kantiana. Ciò significa che
la ragione è appunto in quanto tale pratica cioè che da sola è capace di
determinare a priori la volontà, se la legge è una legge della libertà e non
della natura. (…) Preferisco discutere direttamente le ragioni per le quali mi
sembra che il concetto kantiano di ragion pratica, pur non potendo essere
aggirato, debba essere considerato sostanzialmente superabile.
Ciò che metto in dubbio è, per prima cosa, la necessità di
moralizzare il concetto di ragion pratica in modo tanto totale ed univoco. Mi
sembra che Kant abbia ipostattizzato un solo aspetto della nostra esperienza
pratica, cioè l'obbligo morale, concepito come costruzione operata
dall'imperativo. Mi sembra che l'idea di condotta sottomessa a regole presenti,
oltre a quella del dovere, molte altre sfaccettature. Da questo punto di vista
la nozione aristotelica di areté, meglio tradotta con eccellenza che non col
triste termine virtù, mi sembra possieda un significato più ricco della stessa
idea di sottomissione al dovere. E qui questa ampiezza di senso qualcosa rimane
nella nozione di norme o di regola, cioè l'idea di un modello per agire, di un
programma migliore o preferibile, o di un orientamento che dà senso. Da questo punto di vista,
l'idea di etica è più complessa di quella di moralità se si intende per
moralità la stessa conformità al dovere senza tenere in conto il desiderio.
(241) Questo primo dubbio ne suscita un secondo. L'idea che
la ragione sia in quanto tale pratica cioè comandi in quanto ragione senza tener
conto del desiderio, mi sembra ancor più deplorevole. Coinvolge infatti la
morale in una serie di dicotomie mortali per la stessa nozione di azione,
dicotomie giustamente denunciate dalla critica hegeliana. Forma contro
contenuto, legge pratica contro massima dovere contro desiderio, imperativo contro
felicità. Anche in questo caso Aristotele meglio rendeva conto della struttura
specifica dell'ordine pratico, quando forgiava la nozione di desiderio deliberativo
e appunto congiungeva desiderio, diritto e retto pensiero nel suo concetto di
phronesis. Ma ciò che mi
sembra maggiormente criticabile è il progetto stesso di costruire la critica
della ragion pratica sul modello della critica della ragion pura quindi con una
separazione metodica dell’a priori dall’empirico. L'idea stessa di un’analitica
della ragion pratica che corrisponde punto per punto a quella della ragion
pura, mi sembra misconoscere la specificità dell'ambito dell'agire umano, che
non sopporta lo smantellamento a cui si è condannati dal metodo trascendentale,
ma al contrario richiede un acuto senso delle transazioni e delle mediazioni.
Infine, questo misconoscimento dei requisiti dell'agire ha
per contropartita una sopravvalutazione dell’apriori stesso cioè della regola
di universalizzazione, che se senza dubbio altro non è se non un criterio di
controllo che permette a un agente di mettere alla prova la sua buona fede
allorché pretende di essere oggettivo nelle massime della sua azione. Innalzando
al rango di principio supremo la regola di universalizzazione, Kant dall'avvio
alla più pericolosa delle idee quella che si possa giudicare l'ordine pratico
attraverso un sapere e una scientificità paragonabili al sapere e alla
scientificità dell'ordine teorico. Va detto che Kant riduce questo sapere alle
enunciazioni di un principio supremo. Ancora una volta si può leggere in
Aristotele una severa messa in guardia relativa a questa idea di scienza applicata
alla pratica nel famoso passaggio in cui lo stagirita dichiara che nell'ordine delle
cose umane variabili e sottomessa la decisione non si può raggiungere lo stesso
grado di precisione presente ad esempio nelle scienze matematiche e che occorre
ogni volta proporzionare alle richieste dell'oggetto il grado di rigore della
disciplina considerata. Vi sono poche idee al giorno d'oggi più salubri e
liberanti dell'idea che vi sia una ragion pratica ma non una scienza della
pratica.
(242) L'ambito dell'agire è, dal punto di vista ontologico,
quello delle cose mutevoli e, dal punto di vista epistemologico, quello del verosimile,
nel senso di plausibile e probabile. Ovviamente non bisogna attribuire a Kant la
responsabilità di uno sviluppo che egli non ha voluto né anticipato. Mi limito
a sottolineare che costruendo il concetto di a priori pratico sul modello dell’a
priori teorico, Kant ha trasferito la ricerca sulla ragion pratica in una
regione del sapere che non le è propria. Per riportarla in quella regione
mediana che Aristotele situava giustamente tra la logica e la alogica
occorrerebbe connettere alla nozione di critica della ragion pratica un senso
che non sia derivato da quello della critica della ragion pura, un senso quindi che converrebbe
solo alla sfera dell'agire umano (…)
IV. La tentazione hegeliana
la mia critica Kant si può dire hegeliana? Sotto molti punti
di vista certamente sì. Tuttavia per quanto la concezione che la concezione hegeliana
dell'azione possa sedurre dal punto di vista intellettuale, il tentativo che
essa rappresenta deve restare una tentazione alla quale è necessario resistere
per ragioni molto precise, che si esporranno più avanti.
Ciò che anzitutto ci seduce e l'idea che si debbano
ricercare nelle Sittlichkeit, nella vita etica concreta, le sorgenti e
le risorse dell'azione sensata. Niente da principio alla vita etica, ciascuno
la trova già qui in uno stato dei costumi in cui si sono sedimentate le
tradizioni fondamentali della sua comunità. Se è vero che la Fondazione
originale non può essere rappresentata che sotto forma più o meno mitica, essa
tuttavia continua ad agire rimanendo efficace attraverso le sedimentazioni
della tradizione e grazie alle interpretazioni sempre nuove che vengono dati da
queste tradizioni e dalla loro originaria Fondazione. Questo comune lavoro sul
fondamento, sulle sedimentazioni e sulle interpretazioni genera quello che è Hegel
chiama Sittlichkeit, cioè la rete delle credenze assiologico che in una
data comunità regolano la divisione tra ciò che è lecito e ciò che è proibito.
(…)
(244) Anziché disgiungere, come Kant, Wille e Wilkur, cioè
da una parte la volontà determinata dalla sola ragione e dall'altra la scelta
libera posta all'incrocio tra dovere e desiderio virgola e Hegel propone il
luogo di questo smantellamento, una costruzione dialettica del volere che segue
l'ordine delle categorie, dall’universalità alla particolarità alla singolarità.
Un volere vuole e si vuole universale nella negazione di tutti i contenuti;
allo stesso tempo vuole questo e non vuole quello; detto diversamente si impegna in un'opera che lo
getta nella particolarità; ma non vi si perde del tutto al punto di non poter
più riprendere riflessivamente, e cioè universalmente, il senso stesso del suo
movimento verso la particolarità. La modalità della volontà di rendersi
particolare rimanendo universale rappresenta, per Hegel ciò che costituisce la
sua singolarità. La
singolarità per conseguenza cessa di essere un modo di essere e di agire
ineffabile e incomunicabile: attraverso la sua costituzione dialettica essa
finisce per congiungere il senso e individualità. Possiamo
entrare in questa costituzione complessa attraverso l'uno l'altro dei due estremi,
o sottolineando il senso di questa opera singolare e sottolineando la
singolarità di questa opera sensata. Ecco pensare la singolarità come
individualità sensata mi sembra una delle più innegabili acquisizioni che una
ricostruzione del concetto di ragion pratica debba incorporare. In epoca
moderna essa corrisponde a quello che il pensiero antico furono l'idea
complessa di desiderio di liberato e l'idea inglobante di phronesis che
costituisce l'eccellenza della decisione.
Ma ci serve un secondo passo con Hegel, quello che prelude e
sembra richiedere il concetto di volontà di cui abbiamo appena sintetizzato la
costituzione dialettica? Occorre ancora farci carico della filosofia politica
verso la quale si Oriente la ripresa della Sittlichkeit, oltre la
critica della moralità? È qui dove tentativo e tentazione si sovrappongono,
allo stesso modo in cui prima con Kant, la reciproca determinazione della
libertà e della legge aveva costituito nello stesso tempo una delle vette della
ragion pratica è la sorgente di tutti i paradossi.
(…)
(245) È in questo punto che il tentativo hegeliano si fa
suggestivo: anziché cercare nella vuota idea di legge in generale la
contropartita di una volontà che, altrimenti, resterebbe arbitraria e gel cerca
nelle strutture successive dell'ordine familiare, poi economico ed infine
politico, le mediazioni concrete che difettano nell'idea vuoto di legge.
il bene dell'uomo e la funzione dell'uomo sono preservati
dalla dispersione nelle tecniche arti particolari, solo nella misura in cui la
politica è essa stessa un sapere architettonico, c'è un sapere che coordina il
bene dell'individuo a quello della comunità virgola e che integra le competenze
particolari in una saggezza relativa tutta la polis. Così è il carattere
architettonico della politica che preserva il carattere indiviso del bene e
della funzione dell'uomo.
(…)
Non è dunque l'idea di una sintesi libertà istituzione che
mi rende esitante, nell'idea che solo nella forma dello Stato liberale sia
possibile vedere questa sintesi all'opera nello spessore della storia. Il punto
in cui il tentativo hegeliano diventa i miei occhi una tentazione da scartare
con forza e questo: si può fondamentalmente dubitare che, per elevarsi al
dall'individuo allo stato, si debba distinguere ontologicamente tra spirito
soggettivo e spirito oggettivo, o piuttosto tra coscienza e spirito. Il punto è
di essenziale importanza. Per Hegel Lo stesso termine spirito segna una
discontinuità radicale il rapporto ad ogni coscienza fenomenologica cioè con
una coscienza incessantemente strappata a se stessa da una mancanza e
nell'attesa che il proprio essere giunga a riconoscimento di un'altra coscienza.
È per questo che nell’Enciclopedia la filosofia dello spirito oggettivo si
sviluppa al di fuori della fenomenologia, nella misura in cui la fenomenologia
resta il regno della coscienza intenzionale privata del proprio altro. Ci si
può chiedere se questa ipostatizzazione lo spirito, tanto elevata al di sopra
della coscienza individuale e al di sopra anche dell' intersoggettività non sia
responsabili di un'altra ipostasi, quella dello Stato.
(…)
Occorre ripetere, con Aristotele, che si dà conoscenza solo
del necessario e dell' immutabile. La ragion pratica non deve dunque levare le
sue pretese al di là della zona mediana che si colloca tra la scienza dell'immutabile
e del necessario e le opinioni arbitrarie, sia collettive che individuali
riconoscere questo statuto mediano della ragion pratica e la garanzia della sua
sobrietà e della sua apertura alla discussione e alla critica.
Terza implicazione: se la ragion pratica è l'insieme delle
misure prese per preservare o per instaurare la dialettica della libertà e
delle istituzione, la ragion pratica ritrova una funzione critica perdendo la
pretesa teorica in quanto sapere. Questa funzione critica nasce dal
riconoscimento dello scarto tra l'idea di una costituzione politica, nella
quale l'individuo troverebbe la propria soddisfazione, e la realtà empirica di
Stato. È di questo scarto che si deve rendere conto nel quadro dell’ipotesi opposta
a quella dello spirito oggettivo hegeliano, cioè l'ipotesi che lo stato e le
altre entità comunitarie di alto livello procedono al l'oggettivazione
all'alienazione delle stesse relazioni intersoggettive. La funzione critica
della ragion pratica diventa quella di smascherare i meccanismi nascosti di
distorsione attraverso i quali le legittime aggettivazioni del legame
comunitario divengono intollerabili alle nazioni punto gli finisco qui
legittime oggettivazione tutto l'insieme delle norme delle regole e delle
mediazioni simboliche che fondano l'identità di una comunità umana, mentre
chiama alienazioni le distruzioni sistematiche che impediscono all'individuo di
conciliare l'autonomia della sua volontà con le esigenze generati da queste
mediazioni simboliche punto e qui che a mio avviso quello che è stato chiamato
critica delle ideologie si integra nella ragion pratica come un momento critico.
Abbiamo già parlato delle ideologie a proposito delle
mediazioni simboliche delle azioni allora ci è sembrato che l'ideologia e
virgole in quanto sistemi di rappresentazione di secondo grado delle mediazioni
immanenti dell'azione, avessero una funzione positiva di integrazione del legame
sociale. In questo senso e se rimandano a quelle che ho chiamato le legittime
oggettivazione le leggi comunitarie ma lo statuto rappresentativo di questa
ideologia di integrazione contiene la possibilità che essi obbediscono a dei
meccanismi autonomi di distorsione sistematica virgola di cui in effetti è
proprio che lo stato reale sia tanto distante dall'idea di Stato, così come
l'ha prodotta la filosofia che Eliana. La funzione di una critica delle
ideologie allora quella di rivolgersi alle radici di queste distorsioni
sistematiche, a livello delle relazioni nascoste tra lavoro, potere e
linguaggio. Liberato sia ai limiti della semplice comprensione del discorso
attraverso il discorso la critica delle ideologie e si rende capace di
concepire un'altra funzione delle ideologie, indubbiamente sempre intrecciata
alla funzione di integrazione, c'è la loro funzione di legittimazione del
podere stabilità e di altri poteri pronti a sostituirsi a questo con la stessa
pretesa di dominio. (…)
La critica delle ideologie è, secondo me uno degli strumenti
di benzina attraverso i quali la ragione pratica può convertirsi dal sapere
alla pratica. Si deve allora parlare meno di critica della ragion pratica che
di ragion pratica come critica. E occorre anche che questa critica non eriga a
sua volta in sapere, secondo quella rovinosa opposizione tra scienza e
ideologia. Non vi è infatti uno spazio totalmente estraneo alle ideologie. È dal
territorio delle ideologie che sorge la critica. La sola cosa che può elevare
la critica al di sopra delle opinioni arbitrarie, se inserirla nuovo sapere, è,
alla fine, l'idea morale di autonomia, che ormai funziona come forza utopica di
ogni critica delle ideologie. E il mio discorso termina su queste l'allusione
finale al ruolo della doppia punto la funzione è di ricordarsi che non si dà
ragione pratica senza saggezza pratica ma che non si dà nemmeno saggezza
pratica, nelle situazioni delle Nazioni, senza che il saggio non debba divenire
folle, perché folli sono divenuti gli stessi valori che regolano il legame
sociale.
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