Process-Product

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Come spesso accade nelle scienze, la visione ingenua degli studenti, ovvero la relazione causale tra insegnamento e apprendimento, è presente anche nei periodi iniziali della ricerca, come se il processo ontogenetico, il modo in cui evolve la conoscenza nel singolo su un dato tema, ripercorresse le tappe di quello filogenetico, ovvero il modo in cui evolve la conoscenza nello sviluppo culturale.

Come ricorda Damiano, Gage (1964) descrisse come miraggio dello specchio gli approcci, tipici della ricerca psicologica sull’educazione di quegli anni, nei quali l’insegnamento derivava in modo diretto dalle teorie dell’apprendimento e assegnò a tali modelli basati sull’approccio causativo “il nome collettivo di «modelli Process-Product»” (Damiano, 2013, 116). L’interesse, criticato da Gage, per la costruzione di modelli causativi nasce da una comprensibile esigenza: quale professionista non desidera possedere linee guida che garantiscano il successo della sua azione? Non a caso ancora oggi sono presenti derive in tale direzione.

Il Process-Product va considerato fuor di dubbio come la prima generazione degli approcci allo studio dell'insegnamento. Il problema centrale, per questo tipo di ricerca, è identificare il predittore di efficacia, quegli aspetti dell'insegnamento che consentono di prevedere il migliore effetto[1]. In definitiva si trattava di valutare la funzionalità dell'insegnamento studiando le relazioni (espresse sotto forma di correlazioni) tra la misura dei comportamenti degli insegnanti in classe (Processo) e la misura degli apprendimenti degli studenti (Prodotto). Il presupposto era evidente: l’insegnamento (o l’insegnante) è il fattore variabile determinante del successo nell’apprendimento. Tradotto in modello per insegnare diventa «la Pedagogia per obiettivi» (Damiano, 2006, 48).

La Pedagogia per Obiettivi procede prioritariamente dalle variabili di processo, dall’insegnamento, alle variabili di prodotto, l’apprendimento, “con quello che ne consegue sulle rappresentazioni delle funzioni dell’insegnante rispetto a quelle dell’alunno, e quindi sulle metodiche scolastiche e dei materiali che tendono a essere rigorosamente predefiniti e strutturati (ovvero minimamente aperti e interattivi)” (ivi, 50). Inoltre la Pedagogia per Obiettivi “si fonda evidentemente su un altro presupposto: il comportamento degli alunni è prevedibile e controllabile” (ivi, 50) per cui dagli obiettivi derivano attività e valutazione.

Uscire da una logica causativa non è facile. È spontaneo attribuire una relazione di causa-effetto tra due eventi che si succedono. Nel campo dell’insegnamento e dell’apprendimento uscire da una logica causale è ancora più difficile perché tale relazione è profondamente incarnata nel pensiero collettivo, come dimostrano le concettualizzazioni degli studenti, come si dimostrerà nel capitolo ottavo. Non solo. Nei casi in cui l’apprendimento è relativo alla semplice acquisizione di un’informazione potrebbe sembrare possibile ritenere che l’apprendimento derivi dall’insegnamento ovvero dalla trasmissione di un’informazione. In realtà tale apparente “trasmissione” si realizza solo perché sono presenti, anche se non sempre considerati, tre fattori: un linguaggio e riferimenti condivisi tra i due soggetti che interagiscono e un bisogno in chi apprende. In altri termini un ponte e un conflitto.

Nell’insegnamento di didattica [DID 2019-20] sono state proposte le due seguenti frasi: “Leopardi è nato a Recanati nel 1798” e “Issa è nato a Sinano nel 1763”. Dalle risposte[2] emerge che:

-          la prima frase ha senso per gli studenti, mentre la seconda genera indifferenza (“[La frase non mi ha evocato] nulla di particolare”), produce smarrimento (“Mi sono sentita smarrita”, “Curiosità”) o attiva il contratto didattico (“[Mi sono chiesta] cosa vorrà il docente?”). In alcuni ha suggerito ipotesi (“Ho cercato di collegare questa frase con la prima”, “È nata nello stesso secolo di Leopardi”). Se è possibile comprendere il senso della prima frase solo perché già si conosce il contesto, le uniche ipotesi che produce la seconda sono connesse alla sua collocazione nel testo e nella lezione.

-          Coerentemente con la proposta del concetto come colla di Caruana e Borghi (2016), la prima frase genera ricordi ed emozioni non presenti nella frase connesse alle esperienze del soggetto, sia scolastiche, sia extra-scolastiche: studi, episodi scolastici, ricordi di viaggi.

-          La seconda frase, pur avendo la stessa struttura della prima e fornendo le stesse informazioni, secondo la logica trasmissiva dovrebbe essere esaustiva. Invece ha limitata generatività.

 

In altri termini quello che viene comunicato dal docente ha senso solo se lo studente ha le altre tessere del puzzle e inserisce il nuovo frammento in una rete di senso (ponte). E inoltre è produttivo, ovvero lascia una traccia, solo se supporta un bisogno dello studente, vi è un problema da risolvere, vi è un conflitto. Se non vi è un conflitto lo studente ha minore attenzione per la comunicazione ed essa non attiva processi trasformativi.

In didattica superare la concezione che l’insegnamento generi meccanicamente apprendimento non equivale ad affermare che il docente non debba mai fornire informazioni e proporre il sapere sapiente. Tale affermazione, purtroppo frequente, non coglie il nodo del problema. Una spiegazione può avere senso se lo studente è già consapevole di un conflitto[3] rispetto al quale l’intervento del docente fornisce elementi utili per la risoluzione e se già lo studente ha gli strumenti per comprendere quanto viene detto.

Un rapporto non interattivo tra insegnamento e apprendimento si ha anche rovesciando la prospettiva e mettendo al centro lo studente, ovvero analizzando il processo di costruzione di conoscenza dello studente come processo autonomo e sottovalutando il ruolo e la necessità della interazione con il docente[4]. È quanto avviene negli approcci process-learning di stampo costruttivista sbilanciati su chi apprende (Damiano, 2006, 130-133). Secondo tale approccio è il soggetto che nei processi individuali e, più spesso, sociali (socio-costruttivismo) costruisce la conoscenza. Se tali prospettive sicuramente tengono conto dell’autonomia del soggetto e del suo ruolo attivo nella conoscenza, l’approccio process-learning, che ritroviamo nel modello student centered (Reighelut, 2018), non spiega la funzione degli oggetti culturali, della mediazione, di come garantire la coerenza tra sapere costruito e sapere sapiente, dell’importanza delle micro-interazioni intorno alle quali si struttura la lezione, di come operare per risolvere il conflitto. In sintesi del ruolo dell’insegnamento (Laurillard, 2014, 84-89).

Sia i modelli process-product, sia quelli process-learning non chiariscono il ruolo del docente e non descrivono l’interazione tra docente e studente, e tra insegnamento e apprendimento. Nel primo modello il docente ha il totale controllo come se l’altro fosse un esecutore passivo, nel secondo ha il ruolo secondario di predisporre l’ambiente senza intervenire nel processo come se l’altro potesse operare in totale autonomia (Laurillard, 2014, 109) e come se non lo monitorasse in itinere con continui feedback.



[1] La precedente descrizione sembra adattarsi a molte teorie che si focalizzano sulla ricerca dell’efficacia.

[2] Nel blog sono riportate le risposte degli studenti ai quesiti posti: https://progettazionecomeazione.blogspot.com/2021/01/leopardi-e-issa.html

[3] È utile un collegamento con il paragrafo 3.4 del capitolo terzo dove si è analizzata la strategia del conflitto e si è affermato che una volta presa consapevolezza del conflitto per il suo superamento sono utili riferimenti diretti ala sapere sapiente.

[4] Sicuramente l’apprendimento può avvenire senza insegnamento. Si apprende da quando si nasce in ogni momento della vita. Anche in classe alcuni apprendimenti derivano dal lavoro autonomo dello studente. L’auto-apprendimento è possibile, ma non riguarda la maggioranza degli studenti soprattutto in ambiti formali e per contenuti complessi e non intuitivi.

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